March 05, 2003

La biologia molecolare e le speranze di salute

Massimo Conese e Claudio Bordignon, Telethon Institute for Gene Therapy, Istituto Scientifico H.S. Raffaele, Milano
Fonte: http://www.fondazionesmithkline.it/t20002art7.htm


Quello che hanno rappresentato la medicina e la biologia tout court nell'immaginario dell'uomo moderno all'inizio del metodo scientifico dal Seicento in poi, allo scadere del XX secolo ed al sorgere del XXI viene in primis rappresentato dalla biologia molecolare. Non è un caso che fra i primi romance scientifici spicchi "Frankenstein ovvero il Prometeo moderno" di Mary Shelley (del 1818), in cui si racconta della creazione di un essere artificiale (assemblato da parti di cadaveri) la cui vita deriva da una scarica galvanica, mentre nel Novecento si arrivi a pensare alla creazione di un essere in tutto e per tutto umano grazie alla clonazione dei geni che compongono tutto il nostro patrimonio cromosomico (forse il più recente esempio è "Il terzo gemello" di Ken Follett).

La biologia molecolare è quella branca delle scienze della vita che si occupa di manipolare il corredo genetico, ovvero i geni, le unità discrete di informazione del nostro DNA, tramite metodiche e tecniche che sono note colloquialmente col termine di ingegneria genetica.

Alla base di questa tecnologia c'è la possibilità di ricostruire ed amplificare in maniera smisurata le molecole di DNA mediante il cosidetto clonaggio -ed il prodotto così ottenuto viene chiamato 'DNA ricombinante'. La biologia molecolare ha già avuto un ruolo essenziale nella creazione e modificazione di nuove specie di piante ed animali ai fini alimentari ed ecologici. Lungi dal voler entrare in un campo così vasto ed oggi complesso, lo scopo primario del nostro articolo è quello di voler illustrare le applicazioni più recenti della biologia molecolare alla medicina ed alla farmacologia.

Nell'ambito di questo articolo illustreremo con alcuni esempi come la biologia molecolare sia oggi alla base delle biotecnologie che stanno rapidamente cambiando lo scenario in cui viviamo. Difatti, le tecnologie scaturite dalla biologia molecolare e dall'ingegneria genetica hanno permesso -tra le tante applicazioni - la produzione di quelle chimere a livello genetico denominate animali transgenici, utilizzati per la produzione di anticorpi e di molte altre molecole utili nella diagnostica e in terapia. Inoltre, le biotecnologie stanno permettendo all'uomo di conoscere se stesso fino nei più reconditi dettagli molecolari nell'ambito del Progetto Genoma Umano. Si darà infine particolare rilievo a quella che è forse la più straordinaria frontiera del pensiero umano, ovvero la modificazione del patrimonio genetico ai fini terapeutici.


Biotecnologie

Con questo termine si intende oggi quell'insieme di tecniche attraverso cui è possibile conoscere e modificare, a proprio vantaggio, le proprietà ereditarie degli organismi viventi. Branche mediche come la genetica medica, la diagnosi prenatale e la medicina forense sono state completamente rivoluzionate da tecniche di biologia molecolare e di ingegneria genetica. Quelle che sono state denominate 'piattaforme biotecnologiche' hanno preso il via a partire dagli anni '70 con la ottimizzazione di colture di cellule umane ed animali nonchè con la possibilità di isolare, caratterizzare e modificare i geni mediante l'ingegneria genetica. Poichè il prodotto di un gene, una volta espresso, è una proteina, i ricercatori hanno focalizzato la loro attenzione anche sull'espressione e la purificazione di proteine. Quindi, a partire dai primi studi pioneristici, la maggior parte degli sforzi si sono concentrati da una parte sui geni e dall'altra sui loro prodotti ultimi, le proteine.

Una volta standardizzate le tecniche di ingegneria genetica negli anni '80, il passo successivo, per valutare le funzioni cellulari associate a determinati geni, è stato quello di inserire questi geni al di fuori del loro ambiente cellulare normale. Infatti, ben diverso è sapere come è fatto un gene dal sapere come funziona e da quali altri fattori è regolato. Il primo passo da farsi consisteva nell'effettuare il cosidetto trasferimento genico, ovvero inserire il gene da studiare nella cellula in esame ed, in particolare, nel suo nucleo. Le prime metodiche ad essere usate si basarono sulla possibilità di far precipitare e concentrare il materiale genico sulla membrana plasmatica delle cellule da cui viene assunto per fagocitosi, oppure sulla formazione di piccoli pori sulla membrana mediante un processo di elettroporazione. Dopo aver effettuato il trasferimento genico nella linea cellulare prescelta, e averne verificato l'espressione, si poterono caratterizzare quali sottoregioni del suo promotore (la principale regione che controlla la sua trascrizione) erano fondamentali per la sua espressione. Il passo successivo era l'identificazione dei fattori di controllo (i cosidetti fattori trascrizionali) che si legano a queste sottoregioni e che, in ultima analisi, condizionano l'espressione genica. Le metodiche fin qui descritte volte alla conoscenza dei meccanismi fini della regolazione genica a livello cellulare non sono però esenti da alcune limitazioni. In primo luogo, il trasferimento genico fu effettuato in linee cellulari in vitro, le quali sono solo lontanamente simili alle cellule presenti nel corpo umano e di cui esiste comunque una limitata possibilità di scelta. Inoltre, in vitro vengono a mancare quelle interazioni fra cellule ed ambiente extra-cellulare che avvengono a livello tessutale e che si sono dimostrate importanti per la regolazione dell'espressione genica. Infine, il gene che noi introduciamo dall'esterno, si inserisce non nella regione cromosomica di origine e quindi non nel suo 'ambiente' genico, ma in maniera causale. Nonostante queste problematiche, gli studi di trasferimento genico e di regolazione dell'espressione genica hanno portato a due importanti considerazioni. La prima riguarda la possibilità, ormai saggiata e confermata, di poter inserire dei geni sani all'interno di cellule malate, per verificare se fosse possibile correggerne il difetto (e di questo ne parleremo nel paragrafo dedicato alla terapia genica). La seconda era che la comprensione reale della regolazione genica si sarebbe potuta ottenere solamente introducendo i geni in una determinata cellula che fa parte di un determinato tessuto di un organismo. Solo così si sarebbe potuto dire in quali cellule e in quali stadi di sviluppo viene espresso un determinato gene e dove è attivo il suo promotore. Si sviluppò cioè l'esigenza di capire i meccanismi di controllo genico negli organismi superiori.

In questo modo nacque l'idea di creare i primi animali transgenici. La scelta dell'animale per questi studi ricadde inizialmente sul topo, data la facilità d'uso ed il basso costo, nonchè per altri motivi che vedremo in seguito. Oggi è possibile creare topi transgenici mediante due strategie. In un caso, il DNA del transgene viene microiniettato direttamente nella cellula uovo fecondata di un topo la quale viene successivamente fatta sviluppare in vitro fino allo stadio di blastocisti e quindi reimpiantata nell'utero di un'altra femmina. Nella seconda metodica, sviluppata successivamente ma oggi molto usata, il DNA transgenico viene introdotto nelle cosidette cellule staminali embrionali (ES), le quali vengono selezionate in vitro in base alla presenza o meno del transgene ed inserite in una blastocisti. Appare evidente come la seconda strategia permetta di controllare in maniera molto precisa l'avvenuta inserzione del gene nei cromosomi delle cellule riceventi, ed è per questo che oggi è preferita alla prima.

Nei primi anni ottanta si usò fondamentalmente la prima strategia e fece scalpore la creazione di veri e propri topi 'giganti' in seguito all'introduzione nei loro oociti del gene per l'ormone della crescita (GH). Il gene GH fu posto sotto il controllo di un promotore zinco-dipendente. Quando lo zinco veniva aggiunto all'acqua da cui i topi transgenici bevevano, si osservava una crescita maggiore rispetto a quei topi a cui non era stato somministrato lo zinco ed ai topi di controllo non transgenici. In seguito è stato riscontrato che i topi-GH hanno una durata di vita minore rispetto ai normali. Da queste osservazioni è evidente l'importanza della creazione di questi animali transgenici: è stato infatti possibile capire i vantaggi e gli svantaggi che vengono offerti dalla terapia genica di alcune forme di nanismo con il GH.

In seguito, la tecnologia transgenica fu posta al servizio dell'oncologia. Nel 1988 fu creato il primo modello transgenico murino di tumore (il cosidetto 'oncomouse'), mediante l'introduzione dell'oncogène myc nel pronucleo di una cellula-uovo. Il costrutto genico conteneva una sequenza promotrice diretta a determinare l'espressione del gene nella ghiandola mammaria in via di differenziazione. Gli animali transgenici sviluppavano nell'80% dei casi adenocarcinomimammari mammari.

A partire da questi studi, diversi organismi transgenici sono stati creati al fine di abbracciare una serie di applicazioni molto utili ai fini biologici e medici: per studiare geni in un ambiente complesso come quello dei tessuti o degli organi sia sovraesprimendoli che abolendone l'espressione, o anche per produrre grandi quantità di una proteina utile a scopi terapeutici (vedi il seguente paragrafo).

La trattazione della comprensione dei meccanismi di regolazione genica nell'animale transgenico esula dagli scopi di questa trattazione. La possibilità invece di annullare la funzione di un determinato gene a livello di cellule embrionali polipotenti ci appare molto più foriera di implicazioni nel campo delle biotecnologie. Mediante questa strategia è stato possibile creare i cosidetti animali knock-out (KO). Data la notevole identità delle vie metaboliche fra l'uomo ed il topo, ancora questo animale è stato scelto per la messa a punto di tale metodica. Nella creazione di questi topi, è stata inoltre sfruttata la possibilità, presente in natura, di far ricombinare fra di loro due geni in corrispondenza di regioni omologhe, un evento che prende il nome di ricombinazione omologa. Poichè questo evento si verifica nelle cellule di mammifero con una frequenza abbastanza bassa, una volta su mille, è evidente come la possibilità di coltivare e selezionare le cellule ES dopo il trasferimento genico sia stata di fondamentale importanza per la creazione di questi topi. Il materiale genico che si vuole far ricombinare con il gene endogeno conterrà delle sostituzioni nella sequenza in esame oppure una sequenza estranea all'interno del gene stesso. Nel primo caso, lo scopo è quello di introdurre una o più mutazioni specifiche nel gene in esame e di studiarne l'effetto; nel secondo, si ottiene una soppressione completa del gene. Entrambe queste strategie sono state usate all'occorrenza per mimare alcune malattie umane. Sono stati quindi creati dei modelli animali di malattie ereditarie, come la distrofia muscolare, la fibrosi cistica, l'anemia falciforme o la b-talassemia, icui fenotipi erano uguali o simili a quelli umani. Oltre ad essere un ottima fonte di informazioni per la comprensione etio-patogenetica delle malattie umane, è evidente come tali animali siano ben presto diventati una palestra dove eseguire "esercizi" di terapia genica. Infatti, laddove è possibile introdurre un transgene in maniera mirata in un preciso sito cromosomico, è possibile sostituire una copia malata del gene con una sana. Questo tipo di esperimento è stato effettuato con successo a all'Imperial College School of Medicine di Londra da Claire Huxley e collaboratori, i quali hanno creato un topo transgenico che esprimeva il gene umano della fibrosi cistica (CFTR) e lo hanno incrociato con un topo KO per il gene murino (cftr -/-). La progenie eterozigote presentava le caratteristiche fenotipiche di un topo normale. Sebbene questi risultati indichino che la possibilità di correggere un difetto ereditario manipolando le cellule germinali sia possibile, la loro applicazione all'uomo appare remota, soprattutto per ragioni etiche.


Animali transgenici utili per l'uomo

I ricercatori stanno trasformando greggi ed allevamenti in bioreattori predisposti a produrre farmaci, medicinali ed alimenti.

La tecnologia per la produzione di anticorpi risale alla creazione degli ibridomi, ovvero cellule di fusione fra linfociti murini oppurtanamente stimolati con l'antigene e cellule tumorali. La limitazione di tale metodica risiede nelle basse quantità di anticorpo prodotto, il quale sarebbe difficile da utilizzare a fini industriali. L'evoluzione delle piattaforme biotecnologiche ha portato a generare animali da allevamento capaci di produrre e secernere nei loro fluidi biologici la proteina di interesse. Rimanendo all'esempio degli anticorpi, nel 1996 la Genzyme Transgenics ha annunciato la nascita di una capra transgenica nel cui patrimonio genetico era stato inserito un gene codificante un anticorpo monoclonale, in seguito sviluppato e testato come farmaco antitumorale. Il vantaggio di usare una capra che produce nel proprio latte notevoli quantità di farmaco risiede evidentemente anche nella durata della sua vita biologica. Recentemente, lo stesso gruppo della Genzyme ha prodotto delle capre transgeniche capaci di secernere nel latte due proteine coinvolte nei processi di fibrinolisi e coagulazione, rispettivamente l'attivatore tessutale del plasminogeno e l'antitrombina. L'antitrombina ricombinante secreta nel latte (>1 g/L) è stata purificata e si è dimostrata avere un'attività specifica identica a quella derivata da plasma umano. Altri esempi di questa tecnologia riguardano la creazione di pecore transgeniche che producono e secernono nel latte il fattore IX antiemofilico, coinvolto nella coagulazione del sangue e difettoso nell'emofilia, o l'alfa-1-antitripsina, un inibitore di enzimi proteasici prodotto a livello epatico, carente nella malattia a membrane ialine del polmone.

Nel febbraio 1997, Ian Wilmut dell'Istituto Roslin di Edimburgo annunciava la creazione di Dolly, una pecora transgenica ottenuta mediante tecniche di ingegneria genetica. Più che un organismo transgenico, Dolly è un clone, ovvero un individuo geneticamente identico ad un altro. La sua creazione si deve ad un procedimento per cui il nucleo, prelevato da una cellula di ghiandola mammaria di una pecora adulta, è stato inserito nel citoplasma di una cellula uovo ricevente precedentemente privata del proprio nucleo. I ricercatori hanno fatto sviluppare l'uovo inserendolo nell'utero di un'altra pecora. La nascita di Dolly, oltre ad andare oltre alle più ardite previsioni di coloro che si occupano di animali transgenici, ha posto anche molti quesiti etici. Di fatto, oggi, è possibile produrre più copie identiche di mammiferi, ognuno indistinguibile dall'originale. Inoltre, nonostante questo sorprendente risultato, nulla si può dire della "fisiologia" di Dolly: la sua vita sarà simile a quella delle sue "sorelle" non transgeniche, o il fatto di essere stata generata a partire da un DNA già adulto potrà influenzare il suo processo di invecchiamento? Wilmut e colleghi hanno dimostrato che la lunghezza dei telomeri (le parti terminali dei cromosomi, implicati nella senescenza cellulare) di Dolly è paragonabile a quella delle cellule adulte di ghiandola mammaria usate per il trasferimento nucleare. Inquietante è il fatto che la pecora 'progenitrice' ha sei anni, mentre Dolly na ha solo uno.

Subito dopo l'annuncio di Dolly, Wilmut e colleghi hanno riferito la nascita di altre sei pecore (tra cui la famosa Polly), cloni nati mediante la stessa procedura di Dolly, ma da una cellula fetale e non da una adulta. Inoltre, nel costrutto genico usato era stato inserito il gene umano codificante il fattore IX della coagulazione, una proteina carente nell'emofilia.

È possibile immaginare che la creazione di Polly avrà importanti ricadute sulla biotecnologia degli xenotrapianti, cioè il trasferimento di organi fra specie diverse (dal greco xenos, 'diverso', 'straniero'). La sempre crescente richiesta di organi e le lunghe liste di attesa hanno indotto i ricercatori a prendere in considerazione gli animali come donatori alternativi per gli organi umani. Il primo problema da affrontare è stato quello del rigetto dell'organo trapiantato. Risalgono ai primi anni '60 i trapianti di organi da babbuini in soggetti umani poi deceduti a causa di una reazione acuta di rigetto. Il nostro organismo attiva verso il non-self una serie di risposte molecolari e cellulari, che fanno parte del sistema immunitario, per cui l'organo trapiantato viene distrutto. L'ingegneria genetica ha offerto un potenziale aiuto a questo problema, attraverso l'inserimento di geni umani nelle cellule dell'animale donatore. In particolare, la Imutran di Cambridge in Inghilterra ha già creato dei maiali transgenici (la specie animale normalmente usata per gli xenotrapianti) che contengono un gene umano codificante per la proteina DAF (decay accelerating factor) capace di inibire la reazione responsabile del rigetto iperacuto (DAF è un inibitore del complemento, un effettore della risposta immunitaria).

I cloni animali contenenti un gene umano, come Polly, potrebbero essere usati come produttori di organi "sicuri" dal punto di vista immunologico per i trapianti umani. Società di biotecnologia come la Nextran e la Alexion negli USA sono già nella Fase I degli esperimenti clinici per testare l'efficacia dell'uso extracorporeo del fegato di maiali transgenici in pazienti affetti da gravi epatopatie in attesa di un trapianto da un donatore adatto. Molti scienziati si pongono dei problemi di tipo pratico ed etico al riguardo, e cioè se la fisiologia dell'invecchiamento di un organo animale (seppure transgenico) in un corpo umano sia diversa e come sia diversa. Nonostante questi interrogativi, è stato stimato che più di 450 000 persone in tutto il mondo otterranno vantaggi dagli xenotrapianti a cominciare dall'anno 2010.


Il Progetto Genoma Umano

Fino ad ora abbiamo descritto quelle applicazioni della biologia molecolare e dell'ingegneria genetica più pratiche e rivolte a "piegare" il patrimonio genico alle esigenze della società. Il Progetto Genoma Umano è invece quello che si potrebbe anche chiamare un "vaso di Pandora": chissà cosa contiene e a che cosa darà luogo. Avviato formalmente nel 1990, esso si propone di sequenziare ed analizzare in circa 15 anni il patrimonio genico umano nei suoi minimi dettagli. La biologia molecolare gioca un ruolo determinante in questo immenso progetto da tre miliardi di dollari. Giusto per farsi un'idea della grandezza del problema, ricorderemo che il genoma umano è composto da 3X109 paia di basi, le subunità chimiche la cui sequenza è responsabile dell'informazione presente nel DNA. Una volta ottenuta la loro sequenza su ogni cromosoma delle 23 paia presenti nel nostro nucleo, il progetto è rivolto ad identificare i circa 100 000 geni che sono presenti all'interno di tale sequenza e, possibilmente, a conoscere le loro funzioni.

Il Progetto Genoma è stato avviato grazie alle conoscenze che i genetisti avevano accumulato sulla ereditarietà dei caratteri. In base alle caratteristiche della ricombinazione omologa che avviene a livello dei gameti, ad esempio, è stato possibile approntare le cosidette mappe genetiche dei cromosomi. Una mappa genetica è il risultato di come le migliaia di sequenze note sui cromosomi -e quindi aventi funzioni di marcatori- si separano e si ricombinano passando da una generazione all'altra. Basata evidentemente ed unicamente sull'osservazione della trasmissione fenotipica dei caratteri, questo genere di mappatura non illustra però la sequenza precisa dei geni sui cromosomi. Si è quindi passati a costruire le cosidette mappe fisiche. Ed è qui che entriamo nel regno dell'ingegneria genetica e possiamo meglio capire la funzione del Progetto Genoma. Quest'ultimo si basa infatti sull'isolamento di regioni di DNA cromosomico della lunghezza di 50.000/100.000 paia di basi. Tali frammenti, più facili da propagare e caratterizzare, verranno mappati mediante l'uso di marcatori polimorfici fino ad identificare l'effettiva posizione occupata da ciascuno di essi sui cromosomi. Completate queste fasi iniziali, si procederà al sequenziamento di ogni piccolo frammento, base dopo base.

È recentissimo l'annuncio, pubblicato sulla rivista Nature, del sequenziamento dell'intero cromosoma 22, una pietra miliare nello sviluppo del Progetto. Il 22 è un piccolo cromosoma coinvolto nella patogenesi della schizofrenia, della leucemia mieloide cronica e, verosimilmente, di altre patologie. Ora che ne è nota la sequenza, questa ipotesi potrà essere verificata. Tale successo è il risultato della strategia di clonare e propagare i frammenti di DNA (lunghi da 40.000 a 400.000 paia di basi) in una cosidetta "libreria genomica", inserendo i frammenti stessi nel genoma di un cromosoma artificiale batterico (BAC). Dato che si costruiscono molte migliaia di BAC, si possono trovare zone di giustapposizione fra i BAC stessi. Queste zone vengono riconosciute mediante la cosidetta reazione di polimerizzazione a catena (PCR, polymerase chain reaction). La PCR, ideata da Kary Mullis nel 1983, permette di selezionare una regione circoscritta di DNA e di amplificarla sino a poterne disporre in quantità tali da caratterizzarla. Grazie a questa strategia, Ian Dunham, del Sanger Center di Cambridge, Inghilterra, insieme ad altri otto laboratori sparsi in tutto il mondo, ha potuto creare una mappa fisica del cromosoma 22 mettendo nella giusta posizione i 'contigs' (le zone di giustapposizione) dei BAC, i quali sono stati alfine sequenziati. Il tallone di Achille di tale strategia risiede nel fatto che non sempre è possibile riempire esattamente gli intervalli fra i 'contigs', lasciando così scoperte delle zone la cui identificazione richiede tecniche ancora più sofisticate. Questo intoppo potrebbe essere superato dalla Celera Genomics, la rivale privata del Progetto Genoma, nata sotto l'egida del Department of Energy e del National Institute of Health statunitensi e finanziata dal governo americano. La Celera ha già compiuto l'impresa di sequenziare l'intero genoma di Drosophila melanogaster (180 milioni di paia di basi) mediante la strategia di processare per il sequenziamento i frammenti di DNA direttamente, senza cioè prima localizzare la loro posizione esatta lungo i cromosomi, e quindi di introdurre questa enorme mole di dati in velocissimi supercomputer. Questi ultimi, dedicati all'impresa mediante sofisticati software, indicano, mediante il confronto delle sequenze, dove va uno specifico frammento rispetto a tutti gli altri. Tale procedimento presenta però alcune difficoltà nell'uomo. Infatti il genoma umano contiene, in quantità molto maggiore rispetto agli organismi inferiori, numerose sequenze di DNA identiche, ripetute molte volte, e quindi difficili da posizionare. L'approccio della Celera potrebbe fallire, nel senso che i supercomputer potrebbero confondere le sequenze ripetute di un cromosoma con quelle simili di altri cromosomi.

Al di là della strategia impiegata in questa impresa, è chiaro che il sequenziamento completo del genoma umano (atteso ora per il 2003) non deve indurci a pensare di aver compreso come il nostro organismo da uovo fecondato raggiunga lo stadio di adulto. Nè potremo dire di poter accedere ai segreti irrisolti della dinamica cellulare e delle patologie che ai guasti di tale dinamica conseguono. L'informazione contenuta in quelle 3X109 paia di basi rimarrà ancora criptica. Un esempio illuminante potrà forse meglio chiarire questo concetto. Nel 1989 è stato identificato, mediante tecniche di biologia molecolare molto sofisticate per l'epoca (chromosome walking and jumping), il gene responsabile della fibrosi cistica, una tra le malattie genetiche più diffuse (colpisce 1 su 2500 nuovi nati nella popolazione caucasica) e letali. L'identificazione del gene è risultata ben presto un punto di partenza e non di arrivo. Il nostro livello di comprensione delle relazioni che collegano sequenza nucleotidica, struttura e funzione di una proteina sono ancora rudimentali. Per rimanere al gene della fibrosi cistica, studi in colture cellulari hanno successivamente dimostrato che esso codifica per una proteina che funge da canale ionico per il cloro a livello delle membrane di cellule epiteliali. Ulteriori studi, che combinano tecniche di ingegneria proteica ed analisi strutturale (ad esempio la biocristallografia tramite diffrazione di raggi X), potranno illuminarci su come funziona il canale e le sue relazioni con altre proteine cellulari. Ancora oggi non si sa chiaramente come il prodotto proteico del gene mutato sia responsabile delle alterazioni fenotipiche riscontrate nei pazienti. Inoltre, se consideriamo che sono state riscontrate ad oggi più di 800 mutazioni nel gene stesso, ci si rende conto come sia impossibile affermare che il sequenziamento del genoma umano condurrà alla comprensione del funzionamento dei geni.

Legato a doppio filo a questo discorso, è quello dell'uso che si farà di tale conoscenza. La ricaduta sulla diagnostica molecolare sarà tale che le ditte farmaceutiche immetteranno sul mercato nuovi test utili a dimostrare se una determinata persona è predisposta o meno a determinate malattie, ad esempio il cancro. Ad esempio, in famiglie ove è presente la predisposizione ereditaria per il tumore alla mammella (responsabile di meno del 10 per cento di tutti i casi), le mutazioni del gene BRCA1 conferiscono un rischio dell'85 per cento di contrarre il tumore nel corso della vita, nonchè un rischio del 45 per cento di cancro delle ovaie. È del 1996 l'annuncio di alcune società di biotecnologie, quale la Myriad Genetics, con sede a Salt Lake City, di rendere disponibile il test per BRCA1 per tutte le donne a cui sia stato diagnosticato un tumore alla mammella o delle ovaie e per le loro parenti strette. Ma qual è il ruolo, a livello molecolare, di BRCA1 nella insorgenza di questi tumori maligni? La recente identificazione di un secondo gene coinvolto nel cancro della mammella, BRCA2, complica ulteriormente le cose. Appare evidente che la diffusione di tali test in maniera indiscriminata potrebbe portare ad interventi terapeutici senza un preciso razionale. In ultimo, ma non meno importante, va considerato il potenziale rischio discriminativo in ambito lavorativo, assicurativo, sociale nei confronti di individui "a rischio", in un momento più o meno definito della propria vita, di malattie croniche e debilitanti, come l'aterosclerosi o il cancro.


Nuove biotecnologie

Lo studio e la classificazione di tutte le proteine presenti nelle cellule permetterà un giorno di complementare le informazioni ottenute dal sequenziamento del genoma e di poter finalmente definire quelle che sono le precise funzioni dei prodotti genomici. Il termine "proteoma" si riferisce a quel particolare insieme di proteine espresse in una data cellula in un determinato momento della sua vita e fu ideato dal ricercatore australiano Mark Wilkins nel 1994. La composizione del proteoma può essere indagata mediante tecniche di biochimica quali l'elettroforesi a due dimensioni e la spettrometria di massa. Oggi, le informazioni sulla espressione delle proteine in vari tessuti e in determinati intervalli temporali vanno a combinarsi con quelle derivanti dalla biocristallografia, un metodo di indagine che esplora la struttura tridimensionale delle proteine stesse. Una volta ottenuti i dati che costituiscono una vera e propria 'carta d'identità' delle proteine, si può pensare a quella che è stata definita ingegneria delle proteine, ovvero alla possibilità di cambiare la sequenza delle proteine in modo da variarne le proprietà funzionali. L'approccio sperimentale può essere diversificato a seconda delle esigenze. Un modo molto semplice è quello di cambiare un aminoacido in un altro, mediante tecniche di mutagenesi mirata nel gene codificante, e verificare le conseguenze della mutazione nell'attività funzionale della nuova proteina. L'utilizzo di questa metodica è limitato però a quei casi in cui siano disponibili dati esaustivi sulla proteina di interesse e dei suoi rapporti struttura/funzione. Quando queste informazioni mancano, si può considerare un approccio denominato evoluzionistico in quanto il ricercatore ricalca il modus operandi dell'evoluzione. In questo ambito, si fa uso di una variante della PCR che prende il nome di "PCR soggetta ad errore", per mezzo della quale si introducono 1 o al massimo 2 mutazioni puntiformi (ovvero a livello di singolo nucleotide) in modo da ottenere la sostituzione di 1 aminoacido per proteina mutante. La strategia sta nel produrre molte migliaia di tali geni mutati (una cosidetta libreria), di esprimerli in cellule batteriche ospiti ed infine identificare le proteine mutanti con caratteristiche più vicine a quelle desiderate. Il DNA corripondente alla proteina "migliore" viene quindi sottoposto a cicli di mutagenesi/selezione finchè non verranno ottenuti ulteriori miglioramenti significativi. L'approccio dell'evoluzione in vitro viene applicato oggi con crescente successo nell'industria farmaceutica e in procedimenti industriali che fanno sempre più uso di enzimi, ovvero le proteine con funzioni catalizzatrici. Infatti i catalizzatori dovrebbero soddisfare numerose caratteristiche quali la resistenza ad alte temperature, l'attività in solventi diversi dall'acqua, e la tolleranza a pH lontani dalla neutralità. L'evoluzione guidata degli enzimi in provetta sarà forse la risposta a tutte queste esigenze.

Per parlare della più recente piattaforma biotecnologica dobbiamo tornare al DNA. La sequenza completa dei 100.000 geni che verranno identificati nel corso del Progetto Genoma Umano non permetterà di sapere come le cellule appartenenti ai vari tessuti esprimano solo e solamente un singolo set di geni, i quali così definiscono il fenotipo cellulare. Tale espressione è alla base del differenziamento cellulare e della specializzazione cellulare durante l'embriogenesi. Le metodiche messe a punto (librerie sottrattive, differential display) si erano dimostrate molto laboriose, poco efficienti e comunque non idonee ad essere automatizzate. Nel 1991 Stephen Fodor, allora ricercatore della Affymax, pubblicava su Science un articolo in cui descriveva una tecnica di analisi comparativa simultanea dell'espressione di migliaia di geni in tipi cellulari diversi. Questa piattaforma prese il nome di GeneChip in quanto era il prodotto dell'incontro fra la tecnologia dei semiconduttori e quella della sintesi chimica degli oligonucleotidi. Il sistema è composto da un supporto di vetro suddiviso in molteplici aree contenenti ciascuna 107 oligonucleotidi identici (lunghi 20 basi azotate) che costituiscono la sonda per l'identificazione di un determinato gene. Se si tien conto che GeneChip può contenere fino a 65.356 oligonucleotidi diversi e che oggi sono disponibili chip che presentano oligonucletidi sonda per circa 40.000 dei geni umani, si comprende come le potenzialità di questa tecnica siano enormi. Con gli oligonucleotidi presenti sul chip si fa poi reagire l'RNA messaggero estratto dalle cellule, ovvero lo specchio di tutti i geni attivi. L'applicazione più banale del GeneChip appare quindi l'analisi dei geni espressi da due cellule appartenenti a tessuti diversi. Uno degli scopi finali sarà comunque cercare la correlazione tra cambiamenti dell'espressione genica e specifici cambiamenti nella fisiologia, sia in condizioni normali che patologiche. I GeneChip saranno di enorme ausilio nella diagnosi di malattie conseguenti a particolari mutazioni nel gene implicato. Recentemente alcuni ricercatori della Nanogen, una società di San Diego in California, hanno ideato un microchip per rilevare delle variazioni genetiche chiamate single nucleotide polimorphism a carico della proteina che lega il mannosio, il cui deficit comporta un difetto nell'immunità naturale. Gli studi che useranno i GeneChip potranno anche fornire bersagli per nuovi farmaci. Infatti un gene espresso a livelli molto alti in un tessuto malato rispetto al tessuto sano di riferimento potrebbe rappresentare il bersaglio di nuove molecole.


Terapia genica

Fra le tante possibilità aperte dalla biologia molecolare e dall'ingegneria genetica, appariva di grande attrattiva quella di inserire geni estranei nell'organismo umano e di farli funzionare. Il passo successivo, quello di inserire il gene "sano" in una cellula "malata" e dimostrare che la cellula recuperava quelle funzioni alterate dalla mutazione del gene, è stato breve. Per essere il più possibile vicini alla realtà patologica dell'uomo, questi esperimenti sono stati ripetuti e convalidati in modelli transgenici della malattia in esame. La parte concettuale della rivoluzione della terapia genica è stata quindi compiuta: ogniqualvolta viene scoperto un nuovo gene, ci si chiede se possa essere usato per curare qualche malattia, anche nel caso in cui siano disponibili approcci più tradizionali. È rimasta inevasa, la domanda che è lecito porsi: è capace la terapia genica di curare una malattia? Fino ad ora, e cioè a circa un decennio dall'inizio delle sperimentazioni controllate nell'uomo, non si è riusciti a migliorare in modo sostanziale le condizioni di salute di alcuno degli oltre 2000 pazienti che si sono sottoposti volontariamente a tali protocolli. Ma esistono delle eccezioni. Vediamo punto per punto quali sono le principali tappe del miglioramento della terapia genica.

La sfida più importante, come si legge in una valutazione delle ricerche sulla terapia genica commissionata nel 1995 al National Institutes of Health (NIH) statunitense, è rappresentata dal perfezionamento dei metodi per inserire geni nelle cellule. Spesso i geni introdotti nei pazienti non raggiungono un numero sufficiente di cellule bersaglio oppure funzionano in modo insoddisfacente o addirittura si inattivano. In queste condizioni, un gene potenzialmente utile ha scarse possibilità di interferire con un processo patologico in atto. Quindi il primo limite verso una efficace terapia genica è quello tecnologico che comunque è strettamente correlato a quello biologico. Gli scienziati sono oggi concentrati essenzialmente su due problematiche: come far arrivare più copie dello stesso gene in una cellula e come farle funzionare in modo da poter controllare la malattia.

I primi tentativi di applicare le conoscenze del funzionamento dei geni sono stati fatti in malattie monogeniche, cioè la cui patologia deriva dalle mutazioni a carico di un unico gene. Tra le malattie genetiche di questo tipo finora studiate vi sono la fibrosi cistica (che colpisce soprattutto i polmoni), la distrofia muscolare, la carenza di adenosinadeaminasi (che indebolisce il sistema immunitario) e l'ipercolestorelemia familiare (che porta ad una grave forma di aterosclerosi precoce). Fra queste, fu il deficit di adenosinadeaminasi, o ADA (un enzima che elimina i prodotti di degradazione del DNA all'interno delle cellule), ad essere il banco di prova della terapia genica. Tale carenza è una SCID (severe combined immunedeficiency) che si trasmette in maniera autosomica recessiva e colpisce soprattutto i linfociti T e B, i quali risultano inattivati dall'accumulo di adenosina. Prima dell'avvento della terapia genica, questa malattia veniva curata mediante trapianto di midollo da un donatore compatibile oppure con una terapia enzimatica a base di ADA bovino, stabilizzato da una sostanza chiamata PEG. Fu il gruppo di French Anderson, agli NIH di Bethesda in Maryland, che nel 1990 trattò le cellule staminali di una bimba affetta da SCID/ADA con un vettore retrovirale contenente il gene per l'ADA e le reiniettò nella paziente. Il successo fu parziale poichè le cellule del midollo trattate da French Anderson, essendo quasi tutte in fase di quiescenza, mal rispondevano all'infezione con il retrovirus utilizzato. Nel 1991 fu comunque approvato il trattamento delle cellule staminali con un cocktail di interleuchine (sostanze che stimolano la proliferazione delle popolazioni cellulari circolanti nel sangue), grazie al quale si riuscì a indurre la replicazione delle cellule staminali senza provocarne però il differenziamento precoce. Nel 1993 la terapia per la SCID/ADA fu provata su tre bambini e grazie a questo pre-trattamento il vettore retrovirale dimostrò finalmente di esercitare un effetto duraturo, inserendosi in cellule totipotenti e replicandosi assieme ad esse nella progenie.

Il nostro gruppo al San Raffaele di Milano ha trattato il primo paziente in Europa con terapia genica. A tre anni dall'inizio del protocollo, i pazienti trattati mostravano nel loro sangue linfociti T e B che possedevano il gene ADA nonchè esibivano una normalizzazione del repertorio immune (ovvero tutte le varie classi di linfociti T e B) con un recupero dell'immunità cellulare ed umorale. Benchè questi trials abbiano prodotto importanti indicazioni sul potenziale della terapia genica nel trattamento delle immunodeficienze congenite, il loro pieno impatto rimane difficile da valutare a causa delle infusioni simultanee di ADA nei pazienti. In tale contesto, il contributo relativo della terapia genica rispetto all'infusione dell'enzima nei confronti del miglioramento del paziente rimane ancora da valutare finchè la terapia sostitutiva enzimatica non verrà sospesa.

Mentre il bersaglio genico delle malattie mendeliane è singolo, lo stesso non è vero per altre malattie come il cancro. Come è stato definito negli ultimi anni, questa patologia non è ereditaria, ma deriva dall'accumulo post-natale di danni genetici. Nondimeno, il cancro è sicuramente una delle malattie del secolo che beneficierà della terapia genica. Di fatto, oltre la metà delle sperimentazioni cliniche di terapia genica oggi in corso riguarda il cancro.

Il primo approccio al trattamento del cancro mediante il trasferimento genico fu essenzialmente un esperimento di gene marking. Si sapeva già che isolando i cosidetti TIL (tumor-infiltrating lymphocytes), e cioè linfociti presenti nella massa di un melanoma, trattandoli con interleuchina-2 e reinserendoli nel melanoma si otteneva una sostanziale regressione del tumore in alcuni pazienti. Nel 1990 Steven Rosenberg, allora al National Cancer Institute di Bethesda, transdusse i TIL con un gene-bandiera, il quale induce resistenza alla neomicina, li reinfuse nei pazienti affetti da melanoma e misurò la loro presenza nel sangue e nella massa tumorale anche per parecchi mesi. Siccome Rosenberg non rilevò alcun effetto tossico, anzi una regressione notevole del melanoma in due pazienti sui cinque trattati, egli si spinse a pensare che questo studio sarebbe stato presto seguito da altri in cui i TIL sarebbero stati ingegnerizzati con geni terapeutici, quali il tumor necrosis factor o l'interferone-alfa. Oggigiorno questa è una realtà incontrovertibile e i protocolli clinici basati sull'immunoterapia e approvati dal governo federale statunitense sono più di cinquanta.

Il cancro è una malattia complessa, con una storia naturale che include vari passaggi. Le mutazioni si accumulano nella stessa cellula e la rendono incapace di controllare la propria crescita. Le mutazioni possono attivare i cosidetti oncogèni, che promuovono la crescita incontrollata delle cellule, oppure disattivare i geni oncosoppressori, alcuni dei quali, come p53, sono preposti a determinare la morte cellulare programmata (l'apoptosi) in determinati momenti del ciclo cellulare. Una volta che il tumore si è formato, esso riesce a crescere grazie all'apporto di nuovi vasi sanguigni, elude il riconoscimento e la distruzione da parte del sistema immunitario, e si diffonde in siti lontani da quello della sua insorgenza dove produce i suoi cloni (metastasi) che possono o meno ripetere le caratteristiche del tumore primario.

In base a quello che abbiamo appena descritto, varie strategie di terapia genica sono state approntate. Una di queste è lo spegnimento degli oncogèni mediante le cosiddette strategie antisenso. Il principo su cui esse si basano è il riconoscimento reciproco fra l'RNA messaggero aberrante prodotto dall'oncogène e un mRNA antisenso, cioè un filamento speculare del primo e quindi in grado di appaiarsi ad esso impedendone la traduzione in proteina. Questo approccio è stato provato con successo sui due geni responsabili della trasformazione neoplastica da parte del virus del papilloma, il quale induce cancro alla cervice uterina. In altri casi, ai fini dello spegnimento di geni aberranti, sono state utilizzate delle particolari molecole di RNA chiamate ribozimi. Questi ultimi assumono una struttura tridimensionale per cui sono in grado di riconoscere un RNA aberrante, prodotto da un oncogene, e di degradarlo.

Uno dei geni oncosoppressori più comunemente mutato nel cancro umano è p53, il quale, se il DNA è danneggiato, può arrestare la divisione cellulare affinchè il danno venga riparato oppure può indurre apoptosi. Esperimenti preliminari negli animali hanno dimostrato significativi miglioramenti quando il gene p53 è stato introdotto sia nel flusso sanguigno che direttamente nei tumori. Un trial clinico iniziale ha fatto registrare la regressione di alcuni tumori in siti localizzati.

L'approccio di terapia genica mediante l'attivazione di geni oncosoppressori o l'inattivazione di oncogèni ha comunque una forte limitazione: il gene correttivo deve essere veicolato in ogni cellula tumorale; in caso contrario le cellule a cui esso non ha avuto accesso continueranno a proliferare in modo incontrollato.

Alla stregua di una terapia con oncosoppressori sta quella basata sull'uso di geni suicidi, cioè particolari sequenze geniche in grado di sensibilizzare una cellula verso farmaci tossici: tale tipo di trattamento ha avuto buone possibilità di successo con i tumori del cervello. Poichè i neuroni sono cellule che non si replicano ed i retrovirus trasducono solo cellule in attiva replicazione e quindi anche quelle tumorali, si è pensato ad un protocollo clinico in vivo per i tumori cerebrali. L'introduzione selettiva di un gene chiamato HSV-TK (timidin-kinasi dell'herpesvirus simplex) in cellule tumorali cerebrali le rende quindi sensibili all'azione citocida del pro-farmaco, il ganciclovir, il quale viene per l'appunto convertito in farmaco attivo proprio dal gene TK. Questo permette l'uccisione mirata solo delle cellule neoplastiche che hanno integrato il transgene, risparmiando le cellule nervose quiescenti non tumorali.

Un altro esempio di terapia con geni suicidi è rappresentato dal trapianto di midollo osseo da donatore allogenico (allo-BMT), che oggi costituisce il trattamento di scelta per alcuni tipi di tumore del sistema ematopoietico (soprattutto leucemie). L'impatto terapeutico dell'allo-BMT è limitato dal rischio di insorgenza di una grave complicanza, la cosidetta graft-versus-host-disease (GvHD), dovuta verosimilmente alla presenza di linfociti T effettori nel midollo trapiantato. Attualmente il midollo da infondere viene depleto della popolazione T linfocitaria. Alla ricomparsa della leucemia, si infondono anche i linfociti e a questo punto può comparire la GvDH. Il nostro gruppo al San Raffaele ha allora disegnato una strategia secondo la quale i linfociti T da iniettare vengono ingegnerizzati in vitro con un vettore retrovirale che porta il gene HSV-TK. Degli otto pazienti trattati in questa maniera, tre di essi hanno sviluppato una GvHD, che è stata controllata mediante somministrazione di gangiclovir. Tuttavia alcuni pazienti hanno dimostrato una resistenza al trattamento con gangiclovir. Sono in corso degli studi per poter comprendere i motivi di tale refrattarietà, al fine di poter individuare altri geni suicidi.

Nella storia naturale del cancro sta acquisendo sempre più importanza la vascolarizzazione stessa della massa tumorale. L'angiogenesi tumorale balzò prepotentemente alle cronache nel Maggio 1988 quando il New York Times riportò con grande enfasi i risultati del Prof. Judah Folkman del Children Hospital di Boston. Prima di arrivare ad una determinata dimensione, il tumore non è vascolarizzato e si definisce 'dormiente'. In seguito, vengono prodotti degli specifici fattori di crescita per le cellule endoteliali dei vasi contigui al tumore e queste cellule, creando nuovi vasi, infiltrano la massa e la nutrono. Inoltre, è solo dopo la creazione dei vasi sanguigni tumorali che può iniziare il processo di diffusione a distanza, ovvero la formazione di metastasi. È del 1994 l'idea di Folkman di bloccare la crescita tumorale inibendo la neo-angiogenesi tumorale. Egli riuscì ad identificare degli inibitori naturali (angiostatina ed endostatina) prodotti dallo stesso tumore. Nonostante ad oggi ancora non si conosca la precisa funzione di tali inibitori nella vita naturale del tumore, è certo che Folkman ed altri ricercatori hanno pensato di usarli nella lotta senza quartiere contro il cancro. E poichè si sono riscontrate delle difficoltà nell'ottenere inibitori purificati che conservino le loro proprietà biologiche, si è pensato di farli produrre mediante la terapia genica. Blezinger e colleghi della GeneMedicine, una società con sede nel Texas, hanno introdotto il gene codificante per l'endostatina nel muscolo di topo, il quale ha cominciato a produrre quantità sufficienti dell'inibitore nel sangue per bloccare la crescita di tumori presenti in sedi lontane dal sito d'iniezione del gene. Attualmente sono almeno una trentina le sostanze naturali e sintetiche inibenti l'angiogenesi in sperimentazione nell'uomo, e fra queste l'angiostatina (dalla Entremed di Rockville nel Maryland). Un inibitore della crescita delle cellule endoteliali ha meno probabilità di indurre resistenza rispetto ai chemioterapici attivi sulle cellule tumorali. Mentre infatti queste ultime vanno incontro a rearrangiamenti genici che possono determinare chemioresistenza, la componente endoteliale non è tumorale e quindi non è soggetta a mutare. Ecco spiegata la speranza riposta e la notevole attenzione accordata alla terapia con inibitori della neo-angiogenesi.

Vogliamo finire questo paragrafo parlando del futuro della terapia genica. I vettori genici attualmente in uso possono introdurre il gene all'interno del corredo cromosomico ma in maniera randomizzata (retrovirus e virus adeno-associati) oppure introdurlo nel nucleo senza permettere l'integrazione con il corredo cromosomico (virus adenovirali e sistemi non-virali sintetici). Nel primo caso, il gene, inserendosi casualmente, potrebbe attivare un oncogène oppure disattivare un gene oncosoppressore. Nel secondo, il limite principale appare la mancanza di permanenza del gene terapeutico, perso in seguito alle divisioni cellulari. Inoltre, uno dei maggiori problemi associati a questo tipo di terapia genica, sarebbe dovuto al fatto che il gene terapeutico non è mai attorniato da quelle sequenze regolatrici che sono fondamentali alla funzione del gene stesso e che possono giacere anche a molte kilobasi (migliaia di paia di basi) di distanza da quella parte del gene che darà origine alla proteina. La soluzione a questi problemi sarebbe creare un vettore 'ideale' costituito dalla sequenza genomica in cui è presente il gene d'interesse (lunga anche parecchie kilobasi) e da quelle sequenze nucleotidiche che rassomigliano a quelle presenti sui cromosomi naturali. Esse vengono definite centromeri, telomeri ed origini di replicazioni e permettono ai cromosomi di svolgere le loro funzioni di integrità e propagazione dell'informazione genica. Nel 1997 H.F. Willard e collaboratori, dell'Università di Cleveland nell'Ohio, pubblicarono i risultati riguardanti la possibilità di creare un minicromosoma artificiale assemblando le varie componenti sopra descritte. Willard riuscì anche a dimostrare che il minicromosoma si ritrovava nelle generazioni cellulari successive fino a 6 mesi dalla sua introduzione, indicando che la sua strategia era vincente per quanto riguardava la segregazione ed il mantenimento del cromosoma artificiale. Ovvero, esso si comportava come un cromosoma naturale. Questa tecnologia è oggi ancora molto giovane per poterne predire l'uso a livello umano, ma sicuramente avrà un futuro nelle varie piattaforme biotecnologiche che abbiamo descritto fin qui.


Conclusioni

La biologia molecolare ha generato negli ultimi venticinque anni una conoscenza approfondita del mondo che ci circonda a livello molecolare; non solo, ha permesso ai ricercatori di intervenire sul patrimonio genetico anche dell'uomo per fini terapeutici. D'altra parte, i successi ottenuti rivelano che devono essere affrontati ancora molti problemi tecnologici, biologici e, non ultimi, etici. La società massificata e totalitaria in cui l'uomo nasce grazie a manipolazioni genetiche, come descritta da Aldous Huxley ne "Il mondo nuovo", è lontana; ma sarebbe bello anche sperare che un giorno un cane non pensi ed agisca alla stregua di un uomo (in seguito al trapianto di una ipofisi umana!) come ipotizzato in "Cuore di cane" di Michail Bulgakov.


Fonti ed ulteriori letture

Per le tecnologie che fanno uso del DNA ricombinante si veda:

Boncinelli e A. Simeone, Principi di ingegneria genetica, Ed. Momento Medico, 1984.
B. Lewin, Il gene, Zanichelli, 1985.
Per le biotecnologie:

C. Serra, Le biotecnologie, Editori Riuniti, 1998.
AA.VV., Biotecnologie, Le Scienze Quaderni, n. 106, Le Scienze, 1999.
T. Edmunds et al., Transgenically produced human antithrombin: Structural and functional comparison to human plasma-derived antithrombin. Blood, vol. 91: pp 4561-4571, 1998.
B. Jost et al., Production of low-lactose milk by ectopic expression of intestinal lactase in the mouse mammary gland. Nature Biotechnology, vol. 17: pp 160-164, 1999.
P.N. Gilles et al. Single nucleotide polymorphic discrimination by an electronic dot blot assay on semiconductor microchips. Nature Biotechnology, vol. 17: 365-370, 1999.
Per il Progetto Genoma Umano:

AA.VV., Il Progetto Genoma, Le Scienze Quaderni, n. 100/D, Le Scienze, 1998.
I. Dunham et al., The DNA sequence of human chromosome 22. Nature, vol. 402: pp 489-495, 1999.
Per i vari aspetti della terapia genica:

C. Bordignon et al., Gene therapy in peripheral blood lymphocytes and bone marrow for ADA-immunodeficient patients. Science, vol. 270: pp 470-475, 1995.
C. Bonini et al., HSV-TK gene transfer into donor lymphocytes for control of allogeneic graft-versus-leukemia. Science, vol. 276: pp 1719-1724, 1997.
A.L. Manson et al., Complementation of null CF mice with a human CFTR YAC transgene. The EMBO Journal, vol. 16: pp 4238-4249, 1997.
P. Blezinger et al., Systemic inhibition of tumor growth and tumor metastasis by intramuscular administration of the endostatin gene. Nature Biotechnology, vol. 17: pp 343-348, 1999.
J.J. Harrington et al., Formation of de novo centromeres and construcion of first-generation human artificial chromosomes. Nature Genetics, vol. 15: pp 345-355, 1997.

March 04, 2003

Meno sorveglianza, troppa televisione, eccesso di premure alla sera: una ricerca del ministero della sanità Usa punta il dito sulle donne

"Bambini obesi per solitudine le mamme lavorano troppo"



"È facile dare la colpa al cibo spazzatura le vere cause sono nei mutamenti della società"

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SAN FRANCISCO - Nove milioni di bambini americani sono obesi e la nuova epidemia sociale invade l´Europa. Tutta colpa del fast food? No, hamburger e patatine sono uno «strumento» per ingrassare ma la causa primaria è un´altra: il massiccio ingresso delle donne sul mercato del lavoro, i figli abbandonati davanti alla tv senza un controllo materno sull´alimentazione. Lo dice un´autorevole ricerca condotta dal ministero della Sanità Usa. A sorpresa, le femministe accettano il verdetto e abbattono un tabù sui danni del lavoro femminile per i figli.
A sollevare il caso è proprio una femminista americana, Mary Eberstadt, ricercatrice alla Hoover Institution dell´università di Stanford, con un articolo esplosivo che esce sulla Policy Review con il titolo «The Child-Fat Problem». Secondo l´ultimo censimento del ministero della Sanità, pubblicato sul Journal of the American Medical Association, nella fascia di età fra i 6 e i 19 anni il 15% degli americani è affetto da obesità patologica. Questo esercito di bambini grassi si è triplicato in soli vent´anni: ormai il fenomeno tra i piccoli è ancora più grave che nella popolazione adulta, e progredisce senza freni. Perfino la velocità con cui si ingrassa è in aumento. La generazione di obesi nata dopo il 1964 ci ha messo il 25% di tempo in meno a diventare sovrappeso, rispetto ai nati nel 1957. Questa piaga non è solo americana. La Eberhardt elenca cifre analoghe per Inghilterra, Germania e Giappone, cita i dati del Bollettino epidemiologico nazionale italiano, ricorda l´allarme del ministero della Sanità in Francia dove i bambini obesi sono raddoppiati dal 1980 ad oggi. Le conseguenze sulla salute sono drammatiche: un boom di malattie respiratorie e cardiovascolari in età precoce, di tumori legati al grasso, senza dimenticare le incalcolabili sofferenze di natura psicologica patite dai bambini obesi.
La Eberstadt riassume la vasta letteratura scientifica su questa patologia di massa: le spiegazioni chiamano in causa l´alimentazione troppo ricca di carne, latticini e grassi animali; la vita sedentaria; perfino fattori ereditari. L´industria del fast food è nel mirino e si moltiplicano negli Stati Uniti le cause contro McDonald´s. Come i malati di cancro al polmone vinsero contro l´industria del tabacco, non è escluso che gli obesi comincino a riscuotere indennizzi dai produttori di hamburger. «Ma il fast food - scrive la Eberstadt - risponde a una domanda che esiste sul mercato, non la crea». Certo una dieta a base di cibo-spazzatura è una sicura ricetta per ingrassare, ma qual è la motivazione originaria che spinge verso questa alimentazione? «Il vero problema - dice la Eberstadt - non è il come si ingrassa, ma il perché». La risposta si trova ora in una nuova indagine scientifica condotta da tre medici americani (di cui due donne) e finanziata dal ministero della Sanità Usa. Gli autori sono Patricia Anderson, Kristin Butcher e Philipp Levine, le loro conclusioni sono in un rapporto dal titolo esplicito: «Maternal employment and overweight children» (madri che lavorano e bambini sovrappeso). Sulla base di una ricognizione su 10.000 bambini, la ricerca dimostra «prove evidenti che il lavoro della madre ha un impatto significativo sulla probabilità che il figlio sia sovrappeso». Dal 6 all´11% di aumento di obesità negli Stati Uniti è imputabile al solo fatto che le madri lavorino, e questo vale «anche per le madri bianche, di elevato ceto sociale e livello educativo». Una ricerca analoga ha prodotto gli stessi risultati in Giappone.
Perché una mamma che lavora ha più probabilità di avere un figlio obeso? «Storicamente - scrive la Eberstadt - l´alimentazione dell´infanzia è stata sottoposta a un controllo ravvicinato degli adulti, e principalmente delle madri. Questo è accaduto sotto ogni latitudine, cultura e ceto sociale. Oggi per la prima volta viviamo in un universo in cui gli adulti non sono più in casa per esercitare quel controllo». Ma perché guardare solo al ruolo della madre, e non del padre? «La partecipazione delle donne al mercato del lavoro è il grande cambiamento sociale degli ultimi decenni - scrive la Eberstadt - e piaccia o no la responsabilità di allevare i figli continua a gravare soprattutto su noi donne».
Gli effetti del lavoro femminile sulla dieta dell´infanzia sono molteplici. Fin dai primi mesi: le mamme non possono permettersi di allattare troppo a lungo i bambini al seno, e il latte artificiale è più grasso di quello materno. In seguito, i figli delle madri lavoratrici trascorrono in media ogni giorno 22 minuti in più incollati al televisore, rispetto ai bambini che hanno la mamma a casa. «E´ dimostrato - scrive la Eberstadt - che più tempo i bambini passano davanti al televisore, più mangiano in modo malsano e incontrollato, e quindi cresce la probabilità che diventino obesi».
L´assenza della madre è direttamente legata anche alla minore attività sportiva: la donna ha un ruolo essenziale nel promuovere la socializzazione dei figli in impegni extrascolastici. Infine c´è il fattore psicologico. Le mamme lavoratrici si sentono in colpa, e spesso reagiscono nel modo meno salutare: riempiendo il frigorifero perché ai figli «non manchi nulla». La Eberstadt conclude con una requisitoria che è un attacco frontale a molti luoghi comuni sull´emancipazione femminile: «Il problema dell´obesità infantile apre un nuovo dibattito nel movimento femminista. I vantaggi per le madri di poter accedere al lavoro sono stati esaltati; mentre i possibili costi del nostro successo economico sono rimasti virtualmente un tabù».
Certo è ingiusto non chiamare in causa anche i padri. «Come madre - scrive la Eberstadt - sono d´accordo. Ma la vita è ingiusta. Siamo noi donne che abbiamo sempre ricoperto il ruolo di controllori alimentari verso i bambini. L´eldorado materialista ci rende libere di lasciare la casa per un lavoro remunerato, ma c´è un lato oscuro che non possiamo ignorare. Ciò che i bambini dei paesi ricchi stanno facendo con le loro bocche e i loro stomaci, è riempire dei vuoti che si sono aperti nelle loro vite. Nelle calorie cercano una consolazione perché il mondo di casa e quello del lavoro sono troppo lontani».
Stipsi: ne soffre il 18% degli italiani



Un problema dalle mille sfaccettature su quale influisconoo molto fattori soggettivi e persino "ambientali". E' la stipsi, un disturbo che, solo nell'ultimo anno, ha interessato il 17-18% della popolazione in Italia, ma per il quale è spesso difficile stabilire un causa specifica tanti sono i fattori correlati che concorrono al suo manifestarsi: dall'alimentazione non corretta, a orari e ritmi stressanti fino a stati d'ansia, quando non vere e proprie forme depressive che, non di rado, l'accompagnano.

Intanto una ricerca svolta da Loren Consulting, presentata oggial circoloo della stampa di Milano, dimostra che quello che un tempoera vissuto come problema individuale, intimo, del quale era persinodifficile parlare, oggi è visto come un problema 'socialè,condiviso del quale si può non vergognarsi. Se ne è parlato anche oggi nel corso di un convegno organizzato a Milano dalla Boehringer Ingelheim Italia.

"La stipsi può essere un problema occasionale o cronico - ha spiegato il professor Giuseppe Gizzi, professore di gastroenterologia all'Universitá di Bologna- chi ne soffre dovrebbe adottare uno stiledi vita più regolare alimentandosi correttamente, evitando cibi troppo 'lavorati' e privilegiando invece cibi ricchi di fibre, quali verdura e frutta accompagnati dall'assunzione abbondante di liquidi".

"Anche una moderata ma continuativa attivitáfisica, a volte basta una sana passeggiata, - sottolinea Gizzi - può essere di grande aiuto. Inoltre lo stimolo dell'evacuazione va sempre assecondato quando si presenta, per evitare che col tempo si produca una abolizione dello stimolo stesso con la conseguente necessità di usare, cronicamente, stimoli farmacologici comesupposte o microclismi".

"I lassativi sono indicati solo in caso di stipsi occasionali- sottolinea anche Carmelo Scarpignato, professore di farmacologia all'Università di Parma-: quando la stipsi è cronicava valutata da specialisti in grado di dare diagnosi precise e terapie adeguate; l'auto medicazione è non solo poco efficace, può essere persino dannosa". "Anche i lassativi naturali, senza principichimici, avverte il professore - non sono sempre sinonimo disicurezza. Tant'è che la Fda, l'ente regolatore americano,notoriamente molto severo in tema di controlli, ha messo sottoosservazione tutti i lassativi di banco, compresi quelli naturali, e chiesto alle aziende produttrici di fornire una documentazione adeguata circa la loro innocuità".

"Alcune aziende, anche importanti - sottolinea ancora Scarpignato - hanno dovuto ritirare i loro prodotti naturali, a basedi Aloe, cascara sagrada eccetera, ed in più di un caso, hannodeciso di cambiare la composizione dei propri lassativi passando da principi attivi naturali ad altri principi chimici più tradizionali, come il bisacodile o il picosolfato, ritenuti, anche dalla Fda, più sicuri".


Oms e Fao certificano la dieta mediterranea come misura per combattere le malattie croniche



La dieta mediterranea è stata ufficialmente riconosciuta dalla Fao e dall'Oms come una delle misure per combattere le malattie croniche. "Una dieta povera di cibi ad alto apporto energetico, quali grassi saturi e zuccheri, ma ricca di frutta e verdure, e una vita attiva", è la raccomandazione di un rapporto di esperti indipendenti preparato dalle due Agenzie delle Nazioni Unite, che uscirà a fine aprile.

Il rapporto mira a proporre nuove raccomandazioni da rivolgere ai Governi in merito a dieta ed esercizi per fronteggiare la crescente mortalità dovuta a malattie croniche, quali quelle cardiovascolari, i tumori, il diabete e l'obesità. Nel 2001 le morti da tali malattie hanno rappresentato circa il 59% del totale di 56,5 milioni di morti nel mondo ed il 46% della cifra totale di malattie.

"Qesto rapporto è di grande importanza perché contiene le migliori prove scientifiche attualmente disponibili e valutate da un gruppo di esperti di estrazione mondiale sulla relazione intercorrente tra malattie croniche e dieta, nutrizione e attività fisica»" ha dichiarato Ricardo Uauy, capo dell'Istituto cileno di nutrizione e di tecnologia dell'alimentazione e docente di nutrizione e salute pubblica alla Facoltà di igiene e medicina tropicale dell'Università di Londra, che ha presieduto il gruppo.

Basato sull'analisi delle migliori prove disponibili e sul giudizio collettivo dei trenta esperti, il rapporto rileva che l'apporto energetico quotidiano dovrebbe equivalere all'energia spesa. E' provato che un consumoeccessivo di cibi altamente energetici può provocare aumento dipeso; occorre - secondo il rapporto - porre un limite ai consumi di grassi saturi, di zuccheri e di sale, che si trovano spesso nelle merendine, nei cibi trattati e nelle bibite. La qualitàdei grassi e degli oli ingeriti, nonchè la quantità di sale consumato, può pure influire sulle malattie cardiovascolari quali infarti e colpi apoplettici.

Intanto l'Oms sta preparando una Strategia mondiale sulla dieta, l'attività fisica e la salute, a seguito di una risoluzione adottata nel maggio 2002 dall'Assemblea mondiale della sanità che sarà pubblicato in primavera. Spetterà poi alle autorità nazionali e regionali quale punto di riferimento emanare direttive specifiche sulla dieta e sull'esercizio fisico per le rispettive comunità locali.

"Esso offre - ha dichiarato Uauy - obiettivi dietetici e di livelli d iattività fisica coerenti con le esigenze di una buona salute e della prevenzione delle principali malattie connesse con la nutrizione". Nei Paesi in via di sviluppo si soffre sempre più dimalattie croniche: questo è un cambiamento radicale rispetto apochi decenni or sono, quando le malattie croniche erano appannaggio del mondo ricco e industrializzato. L'inurbamento crescente di contadini che abbandonano la terra per raggiungerela città è una delle cause di questo fenomeno.

Le raccomandazioni specifiche contenute nel rapporto includono la limitazione dei grassi dal 15 al 30%dell'assunzione quotidiana di energia: di questi, i grassi saturi dovrebbero costituire non più del 10 per cento. I carboidrati dovrebbero costituire il grosso - dal 55 al 75% - delle energie da assumere quotidianamente e gli zuccheri non dovrebbero superare il 10 per cento. Le proteine dovrebbero fornire il 10-15 per cento delle calorie e il sale dovrebbe rimanere al di sotto dei 5 grammi al giorno. Frutta e verdure dovrebbero raggiungere almeno 400 grammi al giorno. La Finlandiae il Giappone, che sono intervenuti attivamente sui comportamenti dietetici delle rispettive popolazioni, hanno assistito a una sensibile diminuzione dei fattori di rischio e delle malattie croniche.