April 12, 2003

Diagnosticare la tubercolosi
L’esame del numero di cellule T del sistema immunitario permette di identificare le infezioni latenti


Molte persone infette dalla tubercolosi ne sono ignare e non ricevono alcun trattamento fino a quando non si ammalano e diventano contagiosi. Questo perché i medici non sono in grado di diagnosticare in modo accurato l’infezione fino a quando i sintomi non appaiono. Tutto ciò presto potrebbe cambiare grazie a un nuovo esame del sangue.
Il batterio Mycobacterium tubercolosis provoca tosse persistente (che diffonde ulteriormente la malattia), muco, febbre, e sintomi simili a quelli dell’influenza. Gli antibiotici sono riusciti a rallentare in modo notevole questa malattia, ma non l’hanno sconfitta del tutto. E il miglior esame per rivelarla, vecchio di un secolo, consiste ancora in una puntura, che per di più può dare un risultato errato nel caso in cui una persona fosse stata vaccinata contro la TBC. Gli sforzi per sviluppare un test migliore sono stati complicati dal fatto che il sistema immunitario non produce anticorpi - che di solito vengono rivelati dai test diagnostici - per combattere l’infezione.
Il nuovo esame, sviluppato dall’immunologo Ajit Lalvani dell’Università di Oxford, rivela invece le cellule T del sistema immunitario. Si tratta delle cellule che rispondono a una proteina espressa nel batterio della tubercolosi. Il nuovo test, chiamato ELISPOT, è stato usato per studiare un’epidemia scoppiata in Gran Bretagna in una scuola media nel 2001. ELISPOT ha individuato valori massimi di cellule T negli studenti che sedevano più vicini al bambino infetto, e ha permesso di stabilire che 97 dei 594 studenti presentavano un’infezione latente. Il normale test ne ha identificati di più, 128, ma 31 di questi erano stati vaccinati contro la TBC, il che suggerisce che si trattava di false positività.
Lo studio è stato pubblicato sul numero del 5 aprile della rivista “The Lancet”. Lalvani afferma che ELISPOT potrà essere usato non solo per diagnosticare le infezioni da TBC, ma anche per prevedere chi svilupperà la malattia allo stato completo e per monitorare le cure.


Fonte: Le Scienze S.p.A.

March 15, 2003

Menu' completo all'OGM.

Come sottrarsi al gioco delle multinazionali
ed orientare il mercato verso la sicurezza alimentare: diventare
consumatori critici e consapevoli.


Anticrittogamici, bestiame rimpinzato con mangimi killer (vedi le
vicende della "mucca pazza"), ormoni, antibiotici... mettersi a
tavola e' un po' come giocare alla roulette russa. Come se tutto cio'
non bastasse, ora sono arrivati anche gli OGM che detti cosi' fanno
poca impressione ma se si scioglie la sigla per leggerla in tutta la
sua estensione, "Organismi Geneticamente Modificati", non mancano di
regalare almeno un po' d'apprensione. Soprattutto perche' riuscire ad
individuarli e' tutt'altro che semplice.

Chi ha pensato di scansarli togliendo dal proprio menu' l'insalata di
mais e la salsa di soia, si prepari ad una brutta sorpresa. Infatti
sul mercato circolano innumerevoli alimenti, possiamo azzardare a
dichiarare "di uso quotidiano", che tra i loro ingredienti annoverano
derivati di soia e mais. Inutile dire che e' impossibile trovare
indicazioni in merito sulle etichette: i nostri legislatori non hanno
ancora adeguatamente affrontato il problema. Se a cio' si aggiunge il
bestiame nutrito con sostanze geneticamente modificate, si scopre che
a tavola non si salva una portata, dall'antipasto al dolce.

Il problema e' stato seriamente affrontato da Greenpeace,
l'associazione ambientalista che da alcuni mesi ha fatto dei
supermercati uno dei suoi campi d'azione. In appositi punti
d'informazione, alcuni attivisti mascherati da polli giganti
distribuiscono ai consumatori le liste degli alimenti prodotti con o
senza OGM. Le marche piu' o meno note sono suddivise in tre
categorie: verde, giallo o rosso... con chiaro riferimento ai
semafori stradali.

"I produttori non sono tenuti per legge a dichiarare la presenza di
OGM nei mangimi, e di conseguenza i consumatori non sanno se i
prodotti che acquistano derivano da animali nutriti con mangimi
geneticamente modificati", spiega Federica Ferrario, della campagna
Ogm di Greenpeace. "Con queste liste vogliamo dare ai consumatori la
possibilita' di scegliere prodotti senza OGM e far capire loro che
hanno un grande potere, quello di orientare il mercato verso la
sicurezza alimentare. Rispetto alle prime liste, pubblicate nel '99,
molti prodotti non sono piu' segnalati in rosso, proprio grazie alla
pressione dei consumatori. Ora il problema si e' spostato
prevalentemente sui prodotti di origine animale".

Gli elenchi in distribuzione (presenti anche su un sito Internet
dell'associazione, dove sono continuamente aggiornati) riguardano in
concreto produttori di pollame, uova, suini, pesci d'allevamento e
piatti pronti. Le informazioni sui prodotti sono state fornite
direttamente dalle aziende, pero' Greenpeace si riserva di effettuare
delle analisi per verificare la veridicita' delle dichiarazioni.

Ma si possono evitare gli OGM, senza andare a fare la spesa con la
lista a semaforo? "Gli alimenti biologici garantiscono di escludere
gli OGM in ogni fase della preparazione, compresi i mangimi animali",
spiega ancora Federica Ferrario. "Attenzione all'etichetta, pero': i
prodotti devono essere certificati da uno degli enti autorizzati.
Sarebbe auspicabile che anche i prodotti tipici, dal Parmigiano
Reggiano al prosciutto di Parma, vanto della nostra gastronomia,
inserissero nei loro disciplinari l'assenza di OGM dall'alimentazione
del bestiame".

Per concludere, andiamo a curiosare tra le marche bollate con il
rosso. Tra le pi˜ note troviamo il pollame firmato AIA, il "galletto"
Vallespluga, le uova di varie catene di megastore (come Carrerfour,
Conad, GS e Standa), i "teneroni" di Casa Modena, i salumi Beretta,
Rovagnati e Vismara, alcuni piatti pronti di Buitoni (Nestle') e Chef
Menu (Billa).

Ovviamente le varie liste sono molto piu' lunghe e meritano una
lettura approfondita, cosi' come sarebbe bene memorizzare i nomi
delle industrie che rientrano nella categoria verde... ma lo spazio
e' tiranno, non ce ne vogliano coloro che abbiamo omesso.

Per saperne di piu':

http://ogm.greenpeace.it/new/browseliste.php

http://www.greenpeace.it/camp/ogm/new/presentazioneliste.php

Fonte: GEVAM (http://www.gevam.it)

March 05, 2003

La biologia molecolare e le speranze di salute

Massimo Conese e Claudio Bordignon, Telethon Institute for Gene Therapy, Istituto Scientifico H.S. Raffaele, Milano
Fonte: http://www.fondazionesmithkline.it/t20002art7.htm


Quello che hanno rappresentato la medicina e la biologia tout court nell'immaginario dell'uomo moderno all'inizio del metodo scientifico dal Seicento in poi, allo scadere del XX secolo ed al sorgere del XXI viene in primis rappresentato dalla biologia molecolare. Non è un caso che fra i primi romance scientifici spicchi "Frankenstein ovvero il Prometeo moderno" di Mary Shelley (del 1818), in cui si racconta della creazione di un essere artificiale (assemblato da parti di cadaveri) la cui vita deriva da una scarica galvanica, mentre nel Novecento si arrivi a pensare alla creazione di un essere in tutto e per tutto umano grazie alla clonazione dei geni che compongono tutto il nostro patrimonio cromosomico (forse il più recente esempio è "Il terzo gemello" di Ken Follett).

La biologia molecolare è quella branca delle scienze della vita che si occupa di manipolare il corredo genetico, ovvero i geni, le unità discrete di informazione del nostro DNA, tramite metodiche e tecniche che sono note colloquialmente col termine di ingegneria genetica.

Alla base di questa tecnologia c'è la possibilità di ricostruire ed amplificare in maniera smisurata le molecole di DNA mediante il cosidetto clonaggio -ed il prodotto così ottenuto viene chiamato 'DNA ricombinante'. La biologia molecolare ha già avuto un ruolo essenziale nella creazione e modificazione di nuove specie di piante ed animali ai fini alimentari ed ecologici. Lungi dal voler entrare in un campo così vasto ed oggi complesso, lo scopo primario del nostro articolo è quello di voler illustrare le applicazioni più recenti della biologia molecolare alla medicina ed alla farmacologia.

Nell'ambito di questo articolo illustreremo con alcuni esempi come la biologia molecolare sia oggi alla base delle biotecnologie che stanno rapidamente cambiando lo scenario in cui viviamo. Difatti, le tecnologie scaturite dalla biologia molecolare e dall'ingegneria genetica hanno permesso -tra le tante applicazioni - la produzione di quelle chimere a livello genetico denominate animali transgenici, utilizzati per la produzione di anticorpi e di molte altre molecole utili nella diagnostica e in terapia. Inoltre, le biotecnologie stanno permettendo all'uomo di conoscere se stesso fino nei più reconditi dettagli molecolari nell'ambito del Progetto Genoma Umano. Si darà infine particolare rilievo a quella che è forse la più straordinaria frontiera del pensiero umano, ovvero la modificazione del patrimonio genetico ai fini terapeutici.


Biotecnologie

Con questo termine si intende oggi quell'insieme di tecniche attraverso cui è possibile conoscere e modificare, a proprio vantaggio, le proprietà ereditarie degli organismi viventi. Branche mediche come la genetica medica, la diagnosi prenatale e la medicina forense sono state completamente rivoluzionate da tecniche di biologia molecolare e di ingegneria genetica. Quelle che sono state denominate 'piattaforme biotecnologiche' hanno preso il via a partire dagli anni '70 con la ottimizzazione di colture di cellule umane ed animali nonchè con la possibilità di isolare, caratterizzare e modificare i geni mediante l'ingegneria genetica. Poichè il prodotto di un gene, una volta espresso, è una proteina, i ricercatori hanno focalizzato la loro attenzione anche sull'espressione e la purificazione di proteine. Quindi, a partire dai primi studi pioneristici, la maggior parte degli sforzi si sono concentrati da una parte sui geni e dall'altra sui loro prodotti ultimi, le proteine.

Una volta standardizzate le tecniche di ingegneria genetica negli anni '80, il passo successivo, per valutare le funzioni cellulari associate a determinati geni, è stato quello di inserire questi geni al di fuori del loro ambiente cellulare normale. Infatti, ben diverso è sapere come è fatto un gene dal sapere come funziona e da quali altri fattori è regolato. Il primo passo da farsi consisteva nell'effettuare il cosidetto trasferimento genico, ovvero inserire il gene da studiare nella cellula in esame ed, in particolare, nel suo nucleo. Le prime metodiche ad essere usate si basarono sulla possibilità di far precipitare e concentrare il materiale genico sulla membrana plasmatica delle cellule da cui viene assunto per fagocitosi, oppure sulla formazione di piccoli pori sulla membrana mediante un processo di elettroporazione. Dopo aver effettuato il trasferimento genico nella linea cellulare prescelta, e averne verificato l'espressione, si poterono caratterizzare quali sottoregioni del suo promotore (la principale regione che controlla la sua trascrizione) erano fondamentali per la sua espressione. Il passo successivo era l'identificazione dei fattori di controllo (i cosidetti fattori trascrizionali) che si legano a queste sottoregioni e che, in ultima analisi, condizionano l'espressione genica. Le metodiche fin qui descritte volte alla conoscenza dei meccanismi fini della regolazione genica a livello cellulare non sono però esenti da alcune limitazioni. In primo luogo, il trasferimento genico fu effettuato in linee cellulari in vitro, le quali sono solo lontanamente simili alle cellule presenti nel corpo umano e di cui esiste comunque una limitata possibilità di scelta. Inoltre, in vitro vengono a mancare quelle interazioni fra cellule ed ambiente extra-cellulare che avvengono a livello tessutale e che si sono dimostrate importanti per la regolazione dell'espressione genica. Infine, il gene che noi introduciamo dall'esterno, si inserisce non nella regione cromosomica di origine e quindi non nel suo 'ambiente' genico, ma in maniera causale. Nonostante queste problematiche, gli studi di trasferimento genico e di regolazione dell'espressione genica hanno portato a due importanti considerazioni. La prima riguarda la possibilità, ormai saggiata e confermata, di poter inserire dei geni sani all'interno di cellule malate, per verificare se fosse possibile correggerne il difetto (e di questo ne parleremo nel paragrafo dedicato alla terapia genica). La seconda era che la comprensione reale della regolazione genica si sarebbe potuta ottenere solamente introducendo i geni in una determinata cellula che fa parte di un determinato tessuto di un organismo. Solo così si sarebbe potuto dire in quali cellule e in quali stadi di sviluppo viene espresso un determinato gene e dove è attivo il suo promotore. Si sviluppò cioè l'esigenza di capire i meccanismi di controllo genico negli organismi superiori.

In questo modo nacque l'idea di creare i primi animali transgenici. La scelta dell'animale per questi studi ricadde inizialmente sul topo, data la facilità d'uso ed il basso costo, nonchè per altri motivi che vedremo in seguito. Oggi è possibile creare topi transgenici mediante due strategie. In un caso, il DNA del transgene viene microiniettato direttamente nella cellula uovo fecondata di un topo la quale viene successivamente fatta sviluppare in vitro fino allo stadio di blastocisti e quindi reimpiantata nell'utero di un'altra femmina. Nella seconda metodica, sviluppata successivamente ma oggi molto usata, il DNA transgenico viene introdotto nelle cosidette cellule staminali embrionali (ES), le quali vengono selezionate in vitro in base alla presenza o meno del transgene ed inserite in una blastocisti. Appare evidente come la seconda strategia permetta di controllare in maniera molto precisa l'avvenuta inserzione del gene nei cromosomi delle cellule riceventi, ed è per questo che oggi è preferita alla prima.

Nei primi anni ottanta si usò fondamentalmente la prima strategia e fece scalpore la creazione di veri e propri topi 'giganti' in seguito all'introduzione nei loro oociti del gene per l'ormone della crescita (GH). Il gene GH fu posto sotto il controllo di un promotore zinco-dipendente. Quando lo zinco veniva aggiunto all'acqua da cui i topi transgenici bevevano, si osservava una crescita maggiore rispetto a quei topi a cui non era stato somministrato lo zinco ed ai topi di controllo non transgenici. In seguito è stato riscontrato che i topi-GH hanno una durata di vita minore rispetto ai normali. Da queste osservazioni è evidente l'importanza della creazione di questi animali transgenici: è stato infatti possibile capire i vantaggi e gli svantaggi che vengono offerti dalla terapia genica di alcune forme di nanismo con il GH.

In seguito, la tecnologia transgenica fu posta al servizio dell'oncologia. Nel 1988 fu creato il primo modello transgenico murino di tumore (il cosidetto 'oncomouse'), mediante l'introduzione dell'oncogène myc nel pronucleo di una cellula-uovo. Il costrutto genico conteneva una sequenza promotrice diretta a determinare l'espressione del gene nella ghiandola mammaria in via di differenziazione. Gli animali transgenici sviluppavano nell'80% dei casi adenocarcinomimammari mammari.

A partire da questi studi, diversi organismi transgenici sono stati creati al fine di abbracciare una serie di applicazioni molto utili ai fini biologici e medici: per studiare geni in un ambiente complesso come quello dei tessuti o degli organi sia sovraesprimendoli che abolendone l'espressione, o anche per produrre grandi quantità di una proteina utile a scopi terapeutici (vedi il seguente paragrafo).

La trattazione della comprensione dei meccanismi di regolazione genica nell'animale transgenico esula dagli scopi di questa trattazione. La possibilità invece di annullare la funzione di un determinato gene a livello di cellule embrionali polipotenti ci appare molto più foriera di implicazioni nel campo delle biotecnologie. Mediante questa strategia è stato possibile creare i cosidetti animali knock-out (KO). Data la notevole identità delle vie metaboliche fra l'uomo ed il topo, ancora questo animale è stato scelto per la messa a punto di tale metodica. Nella creazione di questi topi, è stata inoltre sfruttata la possibilità, presente in natura, di far ricombinare fra di loro due geni in corrispondenza di regioni omologhe, un evento che prende il nome di ricombinazione omologa. Poichè questo evento si verifica nelle cellule di mammifero con una frequenza abbastanza bassa, una volta su mille, è evidente come la possibilità di coltivare e selezionare le cellule ES dopo il trasferimento genico sia stata di fondamentale importanza per la creazione di questi topi. Il materiale genico che si vuole far ricombinare con il gene endogeno conterrà delle sostituzioni nella sequenza in esame oppure una sequenza estranea all'interno del gene stesso. Nel primo caso, lo scopo è quello di introdurre una o più mutazioni specifiche nel gene in esame e di studiarne l'effetto; nel secondo, si ottiene una soppressione completa del gene. Entrambe queste strategie sono state usate all'occorrenza per mimare alcune malattie umane. Sono stati quindi creati dei modelli animali di malattie ereditarie, come la distrofia muscolare, la fibrosi cistica, l'anemia falciforme o la b-talassemia, icui fenotipi erano uguali o simili a quelli umani. Oltre ad essere un ottima fonte di informazioni per la comprensione etio-patogenetica delle malattie umane, è evidente come tali animali siano ben presto diventati una palestra dove eseguire "esercizi" di terapia genica. Infatti, laddove è possibile introdurre un transgene in maniera mirata in un preciso sito cromosomico, è possibile sostituire una copia malata del gene con una sana. Questo tipo di esperimento è stato effettuato con successo a all'Imperial College School of Medicine di Londra da Claire Huxley e collaboratori, i quali hanno creato un topo transgenico che esprimeva il gene umano della fibrosi cistica (CFTR) e lo hanno incrociato con un topo KO per il gene murino (cftr -/-). La progenie eterozigote presentava le caratteristiche fenotipiche di un topo normale. Sebbene questi risultati indichino che la possibilità di correggere un difetto ereditario manipolando le cellule germinali sia possibile, la loro applicazione all'uomo appare remota, soprattutto per ragioni etiche.


Animali transgenici utili per l'uomo

I ricercatori stanno trasformando greggi ed allevamenti in bioreattori predisposti a produrre farmaci, medicinali ed alimenti.

La tecnologia per la produzione di anticorpi risale alla creazione degli ibridomi, ovvero cellule di fusione fra linfociti murini oppurtanamente stimolati con l'antigene e cellule tumorali. La limitazione di tale metodica risiede nelle basse quantità di anticorpo prodotto, il quale sarebbe difficile da utilizzare a fini industriali. L'evoluzione delle piattaforme biotecnologiche ha portato a generare animali da allevamento capaci di produrre e secernere nei loro fluidi biologici la proteina di interesse. Rimanendo all'esempio degli anticorpi, nel 1996 la Genzyme Transgenics ha annunciato la nascita di una capra transgenica nel cui patrimonio genetico era stato inserito un gene codificante un anticorpo monoclonale, in seguito sviluppato e testato come farmaco antitumorale. Il vantaggio di usare una capra che produce nel proprio latte notevoli quantità di farmaco risiede evidentemente anche nella durata della sua vita biologica. Recentemente, lo stesso gruppo della Genzyme ha prodotto delle capre transgeniche capaci di secernere nel latte due proteine coinvolte nei processi di fibrinolisi e coagulazione, rispettivamente l'attivatore tessutale del plasminogeno e l'antitrombina. L'antitrombina ricombinante secreta nel latte (>1 g/L) è stata purificata e si è dimostrata avere un'attività specifica identica a quella derivata da plasma umano. Altri esempi di questa tecnologia riguardano la creazione di pecore transgeniche che producono e secernono nel latte il fattore IX antiemofilico, coinvolto nella coagulazione del sangue e difettoso nell'emofilia, o l'alfa-1-antitripsina, un inibitore di enzimi proteasici prodotto a livello epatico, carente nella malattia a membrane ialine del polmone.

Nel febbraio 1997, Ian Wilmut dell'Istituto Roslin di Edimburgo annunciava la creazione di Dolly, una pecora transgenica ottenuta mediante tecniche di ingegneria genetica. Più che un organismo transgenico, Dolly è un clone, ovvero un individuo geneticamente identico ad un altro. La sua creazione si deve ad un procedimento per cui il nucleo, prelevato da una cellula di ghiandola mammaria di una pecora adulta, è stato inserito nel citoplasma di una cellula uovo ricevente precedentemente privata del proprio nucleo. I ricercatori hanno fatto sviluppare l'uovo inserendolo nell'utero di un'altra pecora. La nascita di Dolly, oltre ad andare oltre alle più ardite previsioni di coloro che si occupano di animali transgenici, ha posto anche molti quesiti etici. Di fatto, oggi, è possibile produrre più copie identiche di mammiferi, ognuno indistinguibile dall'originale. Inoltre, nonostante questo sorprendente risultato, nulla si può dire della "fisiologia" di Dolly: la sua vita sarà simile a quella delle sue "sorelle" non transgeniche, o il fatto di essere stata generata a partire da un DNA già adulto potrà influenzare il suo processo di invecchiamento? Wilmut e colleghi hanno dimostrato che la lunghezza dei telomeri (le parti terminali dei cromosomi, implicati nella senescenza cellulare) di Dolly è paragonabile a quella delle cellule adulte di ghiandola mammaria usate per il trasferimento nucleare. Inquietante è il fatto che la pecora 'progenitrice' ha sei anni, mentre Dolly na ha solo uno.

Subito dopo l'annuncio di Dolly, Wilmut e colleghi hanno riferito la nascita di altre sei pecore (tra cui la famosa Polly), cloni nati mediante la stessa procedura di Dolly, ma da una cellula fetale e non da una adulta. Inoltre, nel costrutto genico usato era stato inserito il gene umano codificante il fattore IX della coagulazione, una proteina carente nell'emofilia.

È possibile immaginare che la creazione di Polly avrà importanti ricadute sulla biotecnologia degli xenotrapianti, cioè il trasferimento di organi fra specie diverse (dal greco xenos, 'diverso', 'straniero'). La sempre crescente richiesta di organi e le lunghe liste di attesa hanno indotto i ricercatori a prendere in considerazione gli animali come donatori alternativi per gli organi umani. Il primo problema da affrontare è stato quello del rigetto dell'organo trapiantato. Risalgono ai primi anni '60 i trapianti di organi da babbuini in soggetti umani poi deceduti a causa di una reazione acuta di rigetto. Il nostro organismo attiva verso il non-self una serie di risposte molecolari e cellulari, che fanno parte del sistema immunitario, per cui l'organo trapiantato viene distrutto. L'ingegneria genetica ha offerto un potenziale aiuto a questo problema, attraverso l'inserimento di geni umani nelle cellule dell'animale donatore. In particolare, la Imutran di Cambridge in Inghilterra ha già creato dei maiali transgenici (la specie animale normalmente usata per gli xenotrapianti) che contengono un gene umano codificante per la proteina DAF (decay accelerating factor) capace di inibire la reazione responsabile del rigetto iperacuto (DAF è un inibitore del complemento, un effettore della risposta immunitaria).

I cloni animali contenenti un gene umano, come Polly, potrebbero essere usati come produttori di organi "sicuri" dal punto di vista immunologico per i trapianti umani. Società di biotecnologia come la Nextran e la Alexion negli USA sono già nella Fase I degli esperimenti clinici per testare l'efficacia dell'uso extracorporeo del fegato di maiali transgenici in pazienti affetti da gravi epatopatie in attesa di un trapianto da un donatore adatto. Molti scienziati si pongono dei problemi di tipo pratico ed etico al riguardo, e cioè se la fisiologia dell'invecchiamento di un organo animale (seppure transgenico) in un corpo umano sia diversa e come sia diversa. Nonostante questi interrogativi, è stato stimato che più di 450 000 persone in tutto il mondo otterranno vantaggi dagli xenotrapianti a cominciare dall'anno 2010.


Il Progetto Genoma Umano

Fino ad ora abbiamo descritto quelle applicazioni della biologia molecolare e dell'ingegneria genetica più pratiche e rivolte a "piegare" il patrimonio genico alle esigenze della società. Il Progetto Genoma Umano è invece quello che si potrebbe anche chiamare un "vaso di Pandora": chissà cosa contiene e a che cosa darà luogo. Avviato formalmente nel 1990, esso si propone di sequenziare ed analizzare in circa 15 anni il patrimonio genico umano nei suoi minimi dettagli. La biologia molecolare gioca un ruolo determinante in questo immenso progetto da tre miliardi di dollari. Giusto per farsi un'idea della grandezza del problema, ricorderemo che il genoma umano è composto da 3X109 paia di basi, le subunità chimiche la cui sequenza è responsabile dell'informazione presente nel DNA. Una volta ottenuta la loro sequenza su ogni cromosoma delle 23 paia presenti nel nostro nucleo, il progetto è rivolto ad identificare i circa 100 000 geni che sono presenti all'interno di tale sequenza e, possibilmente, a conoscere le loro funzioni.

Il Progetto Genoma è stato avviato grazie alle conoscenze che i genetisti avevano accumulato sulla ereditarietà dei caratteri. In base alle caratteristiche della ricombinazione omologa che avviene a livello dei gameti, ad esempio, è stato possibile approntare le cosidette mappe genetiche dei cromosomi. Una mappa genetica è il risultato di come le migliaia di sequenze note sui cromosomi -e quindi aventi funzioni di marcatori- si separano e si ricombinano passando da una generazione all'altra. Basata evidentemente ed unicamente sull'osservazione della trasmissione fenotipica dei caratteri, questo genere di mappatura non illustra però la sequenza precisa dei geni sui cromosomi. Si è quindi passati a costruire le cosidette mappe fisiche. Ed è qui che entriamo nel regno dell'ingegneria genetica e possiamo meglio capire la funzione del Progetto Genoma. Quest'ultimo si basa infatti sull'isolamento di regioni di DNA cromosomico della lunghezza di 50.000/100.000 paia di basi. Tali frammenti, più facili da propagare e caratterizzare, verranno mappati mediante l'uso di marcatori polimorfici fino ad identificare l'effettiva posizione occupata da ciascuno di essi sui cromosomi. Completate queste fasi iniziali, si procederà al sequenziamento di ogni piccolo frammento, base dopo base.

È recentissimo l'annuncio, pubblicato sulla rivista Nature, del sequenziamento dell'intero cromosoma 22, una pietra miliare nello sviluppo del Progetto. Il 22 è un piccolo cromosoma coinvolto nella patogenesi della schizofrenia, della leucemia mieloide cronica e, verosimilmente, di altre patologie. Ora che ne è nota la sequenza, questa ipotesi potrà essere verificata. Tale successo è il risultato della strategia di clonare e propagare i frammenti di DNA (lunghi da 40.000 a 400.000 paia di basi) in una cosidetta "libreria genomica", inserendo i frammenti stessi nel genoma di un cromosoma artificiale batterico (BAC). Dato che si costruiscono molte migliaia di BAC, si possono trovare zone di giustapposizione fra i BAC stessi. Queste zone vengono riconosciute mediante la cosidetta reazione di polimerizzazione a catena (PCR, polymerase chain reaction). La PCR, ideata da Kary Mullis nel 1983, permette di selezionare una regione circoscritta di DNA e di amplificarla sino a poterne disporre in quantità tali da caratterizzarla. Grazie a questa strategia, Ian Dunham, del Sanger Center di Cambridge, Inghilterra, insieme ad altri otto laboratori sparsi in tutto il mondo, ha potuto creare una mappa fisica del cromosoma 22 mettendo nella giusta posizione i 'contigs' (le zone di giustapposizione) dei BAC, i quali sono stati alfine sequenziati. Il tallone di Achille di tale strategia risiede nel fatto che non sempre è possibile riempire esattamente gli intervalli fra i 'contigs', lasciando così scoperte delle zone la cui identificazione richiede tecniche ancora più sofisticate. Questo intoppo potrebbe essere superato dalla Celera Genomics, la rivale privata del Progetto Genoma, nata sotto l'egida del Department of Energy e del National Institute of Health statunitensi e finanziata dal governo americano. La Celera ha già compiuto l'impresa di sequenziare l'intero genoma di Drosophila melanogaster (180 milioni di paia di basi) mediante la strategia di processare per il sequenziamento i frammenti di DNA direttamente, senza cioè prima localizzare la loro posizione esatta lungo i cromosomi, e quindi di introdurre questa enorme mole di dati in velocissimi supercomputer. Questi ultimi, dedicati all'impresa mediante sofisticati software, indicano, mediante il confronto delle sequenze, dove va uno specifico frammento rispetto a tutti gli altri. Tale procedimento presenta però alcune difficoltà nell'uomo. Infatti il genoma umano contiene, in quantità molto maggiore rispetto agli organismi inferiori, numerose sequenze di DNA identiche, ripetute molte volte, e quindi difficili da posizionare. L'approccio della Celera potrebbe fallire, nel senso che i supercomputer potrebbero confondere le sequenze ripetute di un cromosoma con quelle simili di altri cromosomi.

Al di là della strategia impiegata in questa impresa, è chiaro che il sequenziamento completo del genoma umano (atteso ora per il 2003) non deve indurci a pensare di aver compreso come il nostro organismo da uovo fecondato raggiunga lo stadio di adulto. Nè potremo dire di poter accedere ai segreti irrisolti della dinamica cellulare e delle patologie che ai guasti di tale dinamica conseguono. L'informazione contenuta in quelle 3X109 paia di basi rimarrà ancora criptica. Un esempio illuminante potrà forse meglio chiarire questo concetto. Nel 1989 è stato identificato, mediante tecniche di biologia molecolare molto sofisticate per l'epoca (chromosome walking and jumping), il gene responsabile della fibrosi cistica, una tra le malattie genetiche più diffuse (colpisce 1 su 2500 nuovi nati nella popolazione caucasica) e letali. L'identificazione del gene è risultata ben presto un punto di partenza e non di arrivo. Il nostro livello di comprensione delle relazioni che collegano sequenza nucleotidica, struttura e funzione di una proteina sono ancora rudimentali. Per rimanere al gene della fibrosi cistica, studi in colture cellulari hanno successivamente dimostrato che esso codifica per una proteina che funge da canale ionico per il cloro a livello delle membrane di cellule epiteliali. Ulteriori studi, che combinano tecniche di ingegneria proteica ed analisi strutturale (ad esempio la biocristallografia tramite diffrazione di raggi X), potranno illuminarci su come funziona il canale e le sue relazioni con altre proteine cellulari. Ancora oggi non si sa chiaramente come il prodotto proteico del gene mutato sia responsabile delle alterazioni fenotipiche riscontrate nei pazienti. Inoltre, se consideriamo che sono state riscontrate ad oggi più di 800 mutazioni nel gene stesso, ci si rende conto come sia impossibile affermare che il sequenziamento del genoma umano condurrà alla comprensione del funzionamento dei geni.

Legato a doppio filo a questo discorso, è quello dell'uso che si farà di tale conoscenza. La ricaduta sulla diagnostica molecolare sarà tale che le ditte farmaceutiche immetteranno sul mercato nuovi test utili a dimostrare se una determinata persona è predisposta o meno a determinate malattie, ad esempio il cancro. Ad esempio, in famiglie ove è presente la predisposizione ereditaria per il tumore alla mammella (responsabile di meno del 10 per cento di tutti i casi), le mutazioni del gene BRCA1 conferiscono un rischio dell'85 per cento di contrarre il tumore nel corso della vita, nonchè un rischio del 45 per cento di cancro delle ovaie. È del 1996 l'annuncio di alcune società di biotecnologie, quale la Myriad Genetics, con sede a Salt Lake City, di rendere disponibile il test per BRCA1 per tutte le donne a cui sia stato diagnosticato un tumore alla mammella o delle ovaie e per le loro parenti strette. Ma qual è il ruolo, a livello molecolare, di BRCA1 nella insorgenza di questi tumori maligni? La recente identificazione di un secondo gene coinvolto nel cancro della mammella, BRCA2, complica ulteriormente le cose. Appare evidente che la diffusione di tali test in maniera indiscriminata potrebbe portare ad interventi terapeutici senza un preciso razionale. In ultimo, ma non meno importante, va considerato il potenziale rischio discriminativo in ambito lavorativo, assicurativo, sociale nei confronti di individui "a rischio", in un momento più o meno definito della propria vita, di malattie croniche e debilitanti, come l'aterosclerosi o il cancro.


Nuove biotecnologie

Lo studio e la classificazione di tutte le proteine presenti nelle cellule permetterà un giorno di complementare le informazioni ottenute dal sequenziamento del genoma e di poter finalmente definire quelle che sono le precise funzioni dei prodotti genomici. Il termine "proteoma" si riferisce a quel particolare insieme di proteine espresse in una data cellula in un determinato momento della sua vita e fu ideato dal ricercatore australiano Mark Wilkins nel 1994. La composizione del proteoma può essere indagata mediante tecniche di biochimica quali l'elettroforesi a due dimensioni e la spettrometria di massa. Oggi, le informazioni sulla espressione delle proteine in vari tessuti e in determinati intervalli temporali vanno a combinarsi con quelle derivanti dalla biocristallografia, un metodo di indagine che esplora la struttura tridimensionale delle proteine stesse. Una volta ottenuti i dati che costituiscono una vera e propria 'carta d'identità' delle proteine, si può pensare a quella che è stata definita ingegneria delle proteine, ovvero alla possibilità di cambiare la sequenza delle proteine in modo da variarne le proprietà funzionali. L'approccio sperimentale può essere diversificato a seconda delle esigenze. Un modo molto semplice è quello di cambiare un aminoacido in un altro, mediante tecniche di mutagenesi mirata nel gene codificante, e verificare le conseguenze della mutazione nell'attività funzionale della nuova proteina. L'utilizzo di questa metodica è limitato però a quei casi in cui siano disponibili dati esaustivi sulla proteina di interesse e dei suoi rapporti struttura/funzione. Quando queste informazioni mancano, si può considerare un approccio denominato evoluzionistico in quanto il ricercatore ricalca il modus operandi dell'evoluzione. In questo ambito, si fa uso di una variante della PCR che prende il nome di "PCR soggetta ad errore", per mezzo della quale si introducono 1 o al massimo 2 mutazioni puntiformi (ovvero a livello di singolo nucleotide) in modo da ottenere la sostituzione di 1 aminoacido per proteina mutante. La strategia sta nel produrre molte migliaia di tali geni mutati (una cosidetta libreria), di esprimerli in cellule batteriche ospiti ed infine identificare le proteine mutanti con caratteristiche più vicine a quelle desiderate. Il DNA corripondente alla proteina "migliore" viene quindi sottoposto a cicli di mutagenesi/selezione finchè non verranno ottenuti ulteriori miglioramenti significativi. L'approccio dell'evoluzione in vitro viene applicato oggi con crescente successo nell'industria farmaceutica e in procedimenti industriali che fanno sempre più uso di enzimi, ovvero le proteine con funzioni catalizzatrici. Infatti i catalizzatori dovrebbero soddisfare numerose caratteristiche quali la resistenza ad alte temperature, l'attività in solventi diversi dall'acqua, e la tolleranza a pH lontani dalla neutralità. L'evoluzione guidata degli enzimi in provetta sarà forse la risposta a tutte queste esigenze.

Per parlare della più recente piattaforma biotecnologica dobbiamo tornare al DNA. La sequenza completa dei 100.000 geni che verranno identificati nel corso del Progetto Genoma Umano non permetterà di sapere come le cellule appartenenti ai vari tessuti esprimano solo e solamente un singolo set di geni, i quali così definiscono il fenotipo cellulare. Tale espressione è alla base del differenziamento cellulare e della specializzazione cellulare durante l'embriogenesi. Le metodiche messe a punto (librerie sottrattive, differential display) si erano dimostrate molto laboriose, poco efficienti e comunque non idonee ad essere automatizzate. Nel 1991 Stephen Fodor, allora ricercatore della Affymax, pubblicava su Science un articolo in cui descriveva una tecnica di analisi comparativa simultanea dell'espressione di migliaia di geni in tipi cellulari diversi. Questa piattaforma prese il nome di GeneChip in quanto era il prodotto dell'incontro fra la tecnologia dei semiconduttori e quella della sintesi chimica degli oligonucleotidi. Il sistema è composto da un supporto di vetro suddiviso in molteplici aree contenenti ciascuna 107 oligonucleotidi identici (lunghi 20 basi azotate) che costituiscono la sonda per l'identificazione di un determinato gene. Se si tien conto che GeneChip può contenere fino a 65.356 oligonucleotidi diversi e che oggi sono disponibili chip che presentano oligonucletidi sonda per circa 40.000 dei geni umani, si comprende come le potenzialità di questa tecnica siano enormi. Con gli oligonucleotidi presenti sul chip si fa poi reagire l'RNA messaggero estratto dalle cellule, ovvero lo specchio di tutti i geni attivi. L'applicazione più banale del GeneChip appare quindi l'analisi dei geni espressi da due cellule appartenenti a tessuti diversi. Uno degli scopi finali sarà comunque cercare la correlazione tra cambiamenti dell'espressione genica e specifici cambiamenti nella fisiologia, sia in condizioni normali che patologiche. I GeneChip saranno di enorme ausilio nella diagnosi di malattie conseguenti a particolari mutazioni nel gene implicato. Recentemente alcuni ricercatori della Nanogen, una società di San Diego in California, hanno ideato un microchip per rilevare delle variazioni genetiche chiamate single nucleotide polimorphism a carico della proteina che lega il mannosio, il cui deficit comporta un difetto nell'immunità naturale. Gli studi che useranno i GeneChip potranno anche fornire bersagli per nuovi farmaci. Infatti un gene espresso a livelli molto alti in un tessuto malato rispetto al tessuto sano di riferimento potrebbe rappresentare il bersaglio di nuove molecole.


Terapia genica

Fra le tante possibilità aperte dalla biologia molecolare e dall'ingegneria genetica, appariva di grande attrattiva quella di inserire geni estranei nell'organismo umano e di farli funzionare. Il passo successivo, quello di inserire il gene "sano" in una cellula "malata" e dimostrare che la cellula recuperava quelle funzioni alterate dalla mutazione del gene, è stato breve. Per essere il più possibile vicini alla realtà patologica dell'uomo, questi esperimenti sono stati ripetuti e convalidati in modelli transgenici della malattia in esame. La parte concettuale della rivoluzione della terapia genica è stata quindi compiuta: ogniqualvolta viene scoperto un nuovo gene, ci si chiede se possa essere usato per curare qualche malattia, anche nel caso in cui siano disponibili approcci più tradizionali. È rimasta inevasa, la domanda che è lecito porsi: è capace la terapia genica di curare una malattia? Fino ad ora, e cioè a circa un decennio dall'inizio delle sperimentazioni controllate nell'uomo, non si è riusciti a migliorare in modo sostanziale le condizioni di salute di alcuno degli oltre 2000 pazienti che si sono sottoposti volontariamente a tali protocolli. Ma esistono delle eccezioni. Vediamo punto per punto quali sono le principali tappe del miglioramento della terapia genica.

La sfida più importante, come si legge in una valutazione delle ricerche sulla terapia genica commissionata nel 1995 al National Institutes of Health (NIH) statunitense, è rappresentata dal perfezionamento dei metodi per inserire geni nelle cellule. Spesso i geni introdotti nei pazienti non raggiungono un numero sufficiente di cellule bersaglio oppure funzionano in modo insoddisfacente o addirittura si inattivano. In queste condizioni, un gene potenzialmente utile ha scarse possibilità di interferire con un processo patologico in atto. Quindi il primo limite verso una efficace terapia genica è quello tecnologico che comunque è strettamente correlato a quello biologico. Gli scienziati sono oggi concentrati essenzialmente su due problematiche: come far arrivare più copie dello stesso gene in una cellula e come farle funzionare in modo da poter controllare la malattia.

I primi tentativi di applicare le conoscenze del funzionamento dei geni sono stati fatti in malattie monogeniche, cioè la cui patologia deriva dalle mutazioni a carico di un unico gene. Tra le malattie genetiche di questo tipo finora studiate vi sono la fibrosi cistica (che colpisce soprattutto i polmoni), la distrofia muscolare, la carenza di adenosinadeaminasi (che indebolisce il sistema immunitario) e l'ipercolestorelemia familiare (che porta ad una grave forma di aterosclerosi precoce). Fra queste, fu il deficit di adenosinadeaminasi, o ADA (un enzima che elimina i prodotti di degradazione del DNA all'interno delle cellule), ad essere il banco di prova della terapia genica. Tale carenza è una SCID (severe combined immunedeficiency) che si trasmette in maniera autosomica recessiva e colpisce soprattutto i linfociti T e B, i quali risultano inattivati dall'accumulo di adenosina. Prima dell'avvento della terapia genica, questa malattia veniva curata mediante trapianto di midollo da un donatore compatibile oppure con una terapia enzimatica a base di ADA bovino, stabilizzato da una sostanza chiamata PEG. Fu il gruppo di French Anderson, agli NIH di Bethesda in Maryland, che nel 1990 trattò le cellule staminali di una bimba affetta da SCID/ADA con un vettore retrovirale contenente il gene per l'ADA e le reiniettò nella paziente. Il successo fu parziale poichè le cellule del midollo trattate da French Anderson, essendo quasi tutte in fase di quiescenza, mal rispondevano all'infezione con il retrovirus utilizzato. Nel 1991 fu comunque approvato il trattamento delle cellule staminali con un cocktail di interleuchine (sostanze che stimolano la proliferazione delle popolazioni cellulari circolanti nel sangue), grazie al quale si riuscì a indurre la replicazione delle cellule staminali senza provocarne però il differenziamento precoce. Nel 1993 la terapia per la SCID/ADA fu provata su tre bambini e grazie a questo pre-trattamento il vettore retrovirale dimostrò finalmente di esercitare un effetto duraturo, inserendosi in cellule totipotenti e replicandosi assieme ad esse nella progenie.

Il nostro gruppo al San Raffaele di Milano ha trattato il primo paziente in Europa con terapia genica. A tre anni dall'inizio del protocollo, i pazienti trattati mostravano nel loro sangue linfociti T e B che possedevano il gene ADA nonchè esibivano una normalizzazione del repertorio immune (ovvero tutte le varie classi di linfociti T e B) con un recupero dell'immunità cellulare ed umorale. Benchè questi trials abbiano prodotto importanti indicazioni sul potenziale della terapia genica nel trattamento delle immunodeficienze congenite, il loro pieno impatto rimane difficile da valutare a causa delle infusioni simultanee di ADA nei pazienti. In tale contesto, il contributo relativo della terapia genica rispetto all'infusione dell'enzima nei confronti del miglioramento del paziente rimane ancora da valutare finchè la terapia sostitutiva enzimatica non verrà sospesa.

Mentre il bersaglio genico delle malattie mendeliane è singolo, lo stesso non è vero per altre malattie come il cancro. Come è stato definito negli ultimi anni, questa patologia non è ereditaria, ma deriva dall'accumulo post-natale di danni genetici. Nondimeno, il cancro è sicuramente una delle malattie del secolo che beneficierà della terapia genica. Di fatto, oltre la metà delle sperimentazioni cliniche di terapia genica oggi in corso riguarda il cancro.

Il primo approccio al trattamento del cancro mediante il trasferimento genico fu essenzialmente un esperimento di gene marking. Si sapeva già che isolando i cosidetti TIL (tumor-infiltrating lymphocytes), e cioè linfociti presenti nella massa di un melanoma, trattandoli con interleuchina-2 e reinserendoli nel melanoma si otteneva una sostanziale regressione del tumore in alcuni pazienti. Nel 1990 Steven Rosenberg, allora al National Cancer Institute di Bethesda, transdusse i TIL con un gene-bandiera, il quale induce resistenza alla neomicina, li reinfuse nei pazienti affetti da melanoma e misurò la loro presenza nel sangue e nella massa tumorale anche per parecchi mesi. Siccome Rosenberg non rilevò alcun effetto tossico, anzi una regressione notevole del melanoma in due pazienti sui cinque trattati, egli si spinse a pensare che questo studio sarebbe stato presto seguito da altri in cui i TIL sarebbero stati ingegnerizzati con geni terapeutici, quali il tumor necrosis factor o l'interferone-alfa. Oggigiorno questa è una realtà incontrovertibile e i protocolli clinici basati sull'immunoterapia e approvati dal governo federale statunitense sono più di cinquanta.

Il cancro è una malattia complessa, con una storia naturale che include vari passaggi. Le mutazioni si accumulano nella stessa cellula e la rendono incapace di controllare la propria crescita. Le mutazioni possono attivare i cosidetti oncogèni, che promuovono la crescita incontrollata delle cellule, oppure disattivare i geni oncosoppressori, alcuni dei quali, come p53, sono preposti a determinare la morte cellulare programmata (l'apoptosi) in determinati momenti del ciclo cellulare. Una volta che il tumore si è formato, esso riesce a crescere grazie all'apporto di nuovi vasi sanguigni, elude il riconoscimento e la distruzione da parte del sistema immunitario, e si diffonde in siti lontani da quello della sua insorgenza dove produce i suoi cloni (metastasi) che possono o meno ripetere le caratteristiche del tumore primario.

In base a quello che abbiamo appena descritto, varie strategie di terapia genica sono state approntate. Una di queste è lo spegnimento degli oncogèni mediante le cosiddette strategie antisenso. Il principo su cui esse si basano è il riconoscimento reciproco fra l'RNA messaggero aberrante prodotto dall'oncogène e un mRNA antisenso, cioè un filamento speculare del primo e quindi in grado di appaiarsi ad esso impedendone la traduzione in proteina. Questo approccio è stato provato con successo sui due geni responsabili della trasformazione neoplastica da parte del virus del papilloma, il quale induce cancro alla cervice uterina. In altri casi, ai fini dello spegnimento di geni aberranti, sono state utilizzate delle particolari molecole di RNA chiamate ribozimi. Questi ultimi assumono una struttura tridimensionale per cui sono in grado di riconoscere un RNA aberrante, prodotto da un oncogene, e di degradarlo.

Uno dei geni oncosoppressori più comunemente mutato nel cancro umano è p53, il quale, se il DNA è danneggiato, può arrestare la divisione cellulare affinchè il danno venga riparato oppure può indurre apoptosi. Esperimenti preliminari negli animali hanno dimostrato significativi miglioramenti quando il gene p53 è stato introdotto sia nel flusso sanguigno che direttamente nei tumori. Un trial clinico iniziale ha fatto registrare la regressione di alcuni tumori in siti localizzati.

L'approccio di terapia genica mediante l'attivazione di geni oncosoppressori o l'inattivazione di oncogèni ha comunque una forte limitazione: il gene correttivo deve essere veicolato in ogni cellula tumorale; in caso contrario le cellule a cui esso non ha avuto accesso continueranno a proliferare in modo incontrollato.

Alla stregua di una terapia con oncosoppressori sta quella basata sull'uso di geni suicidi, cioè particolari sequenze geniche in grado di sensibilizzare una cellula verso farmaci tossici: tale tipo di trattamento ha avuto buone possibilità di successo con i tumori del cervello. Poichè i neuroni sono cellule che non si replicano ed i retrovirus trasducono solo cellule in attiva replicazione e quindi anche quelle tumorali, si è pensato ad un protocollo clinico in vivo per i tumori cerebrali. L'introduzione selettiva di un gene chiamato HSV-TK (timidin-kinasi dell'herpesvirus simplex) in cellule tumorali cerebrali le rende quindi sensibili all'azione citocida del pro-farmaco, il ganciclovir, il quale viene per l'appunto convertito in farmaco attivo proprio dal gene TK. Questo permette l'uccisione mirata solo delle cellule neoplastiche che hanno integrato il transgene, risparmiando le cellule nervose quiescenti non tumorali.

Un altro esempio di terapia con geni suicidi è rappresentato dal trapianto di midollo osseo da donatore allogenico (allo-BMT), che oggi costituisce il trattamento di scelta per alcuni tipi di tumore del sistema ematopoietico (soprattutto leucemie). L'impatto terapeutico dell'allo-BMT è limitato dal rischio di insorgenza di una grave complicanza, la cosidetta graft-versus-host-disease (GvHD), dovuta verosimilmente alla presenza di linfociti T effettori nel midollo trapiantato. Attualmente il midollo da infondere viene depleto della popolazione T linfocitaria. Alla ricomparsa della leucemia, si infondono anche i linfociti e a questo punto può comparire la GvDH. Il nostro gruppo al San Raffaele ha allora disegnato una strategia secondo la quale i linfociti T da iniettare vengono ingegnerizzati in vitro con un vettore retrovirale che porta il gene HSV-TK. Degli otto pazienti trattati in questa maniera, tre di essi hanno sviluppato una GvHD, che è stata controllata mediante somministrazione di gangiclovir. Tuttavia alcuni pazienti hanno dimostrato una resistenza al trattamento con gangiclovir. Sono in corso degli studi per poter comprendere i motivi di tale refrattarietà, al fine di poter individuare altri geni suicidi.

Nella storia naturale del cancro sta acquisendo sempre più importanza la vascolarizzazione stessa della massa tumorale. L'angiogenesi tumorale balzò prepotentemente alle cronache nel Maggio 1988 quando il New York Times riportò con grande enfasi i risultati del Prof. Judah Folkman del Children Hospital di Boston. Prima di arrivare ad una determinata dimensione, il tumore non è vascolarizzato e si definisce 'dormiente'. In seguito, vengono prodotti degli specifici fattori di crescita per le cellule endoteliali dei vasi contigui al tumore e queste cellule, creando nuovi vasi, infiltrano la massa e la nutrono. Inoltre, è solo dopo la creazione dei vasi sanguigni tumorali che può iniziare il processo di diffusione a distanza, ovvero la formazione di metastasi. È del 1994 l'idea di Folkman di bloccare la crescita tumorale inibendo la neo-angiogenesi tumorale. Egli riuscì ad identificare degli inibitori naturali (angiostatina ed endostatina) prodotti dallo stesso tumore. Nonostante ad oggi ancora non si conosca la precisa funzione di tali inibitori nella vita naturale del tumore, è certo che Folkman ed altri ricercatori hanno pensato di usarli nella lotta senza quartiere contro il cancro. E poichè si sono riscontrate delle difficoltà nell'ottenere inibitori purificati che conservino le loro proprietà biologiche, si è pensato di farli produrre mediante la terapia genica. Blezinger e colleghi della GeneMedicine, una società con sede nel Texas, hanno introdotto il gene codificante per l'endostatina nel muscolo di topo, il quale ha cominciato a produrre quantità sufficienti dell'inibitore nel sangue per bloccare la crescita di tumori presenti in sedi lontane dal sito d'iniezione del gene. Attualmente sono almeno una trentina le sostanze naturali e sintetiche inibenti l'angiogenesi in sperimentazione nell'uomo, e fra queste l'angiostatina (dalla Entremed di Rockville nel Maryland). Un inibitore della crescita delle cellule endoteliali ha meno probabilità di indurre resistenza rispetto ai chemioterapici attivi sulle cellule tumorali. Mentre infatti queste ultime vanno incontro a rearrangiamenti genici che possono determinare chemioresistenza, la componente endoteliale non è tumorale e quindi non è soggetta a mutare. Ecco spiegata la speranza riposta e la notevole attenzione accordata alla terapia con inibitori della neo-angiogenesi.

Vogliamo finire questo paragrafo parlando del futuro della terapia genica. I vettori genici attualmente in uso possono introdurre il gene all'interno del corredo cromosomico ma in maniera randomizzata (retrovirus e virus adeno-associati) oppure introdurlo nel nucleo senza permettere l'integrazione con il corredo cromosomico (virus adenovirali e sistemi non-virali sintetici). Nel primo caso, il gene, inserendosi casualmente, potrebbe attivare un oncogène oppure disattivare un gene oncosoppressore. Nel secondo, il limite principale appare la mancanza di permanenza del gene terapeutico, perso in seguito alle divisioni cellulari. Inoltre, uno dei maggiori problemi associati a questo tipo di terapia genica, sarebbe dovuto al fatto che il gene terapeutico non è mai attorniato da quelle sequenze regolatrici che sono fondamentali alla funzione del gene stesso e che possono giacere anche a molte kilobasi (migliaia di paia di basi) di distanza da quella parte del gene che darà origine alla proteina. La soluzione a questi problemi sarebbe creare un vettore 'ideale' costituito dalla sequenza genomica in cui è presente il gene d'interesse (lunga anche parecchie kilobasi) e da quelle sequenze nucleotidiche che rassomigliano a quelle presenti sui cromosomi naturali. Esse vengono definite centromeri, telomeri ed origini di replicazioni e permettono ai cromosomi di svolgere le loro funzioni di integrità e propagazione dell'informazione genica. Nel 1997 H.F. Willard e collaboratori, dell'Università di Cleveland nell'Ohio, pubblicarono i risultati riguardanti la possibilità di creare un minicromosoma artificiale assemblando le varie componenti sopra descritte. Willard riuscì anche a dimostrare che il minicromosoma si ritrovava nelle generazioni cellulari successive fino a 6 mesi dalla sua introduzione, indicando che la sua strategia era vincente per quanto riguardava la segregazione ed il mantenimento del cromosoma artificiale. Ovvero, esso si comportava come un cromosoma naturale. Questa tecnologia è oggi ancora molto giovane per poterne predire l'uso a livello umano, ma sicuramente avrà un futuro nelle varie piattaforme biotecnologiche che abbiamo descritto fin qui.


Conclusioni

La biologia molecolare ha generato negli ultimi venticinque anni una conoscenza approfondita del mondo che ci circonda a livello molecolare; non solo, ha permesso ai ricercatori di intervenire sul patrimonio genetico anche dell'uomo per fini terapeutici. D'altra parte, i successi ottenuti rivelano che devono essere affrontati ancora molti problemi tecnologici, biologici e, non ultimi, etici. La società massificata e totalitaria in cui l'uomo nasce grazie a manipolazioni genetiche, come descritta da Aldous Huxley ne "Il mondo nuovo", è lontana; ma sarebbe bello anche sperare che un giorno un cane non pensi ed agisca alla stregua di un uomo (in seguito al trapianto di una ipofisi umana!) come ipotizzato in "Cuore di cane" di Michail Bulgakov.


Fonti ed ulteriori letture

Per le tecnologie che fanno uso del DNA ricombinante si veda:

Boncinelli e A. Simeone, Principi di ingegneria genetica, Ed. Momento Medico, 1984.
B. Lewin, Il gene, Zanichelli, 1985.
Per le biotecnologie:

C. Serra, Le biotecnologie, Editori Riuniti, 1998.
AA.VV., Biotecnologie, Le Scienze Quaderni, n. 106, Le Scienze, 1999.
T. Edmunds et al., Transgenically produced human antithrombin: Structural and functional comparison to human plasma-derived antithrombin. Blood, vol. 91: pp 4561-4571, 1998.
B. Jost et al., Production of low-lactose milk by ectopic expression of intestinal lactase in the mouse mammary gland. Nature Biotechnology, vol. 17: pp 160-164, 1999.
P.N. Gilles et al. Single nucleotide polymorphic discrimination by an electronic dot blot assay on semiconductor microchips. Nature Biotechnology, vol. 17: 365-370, 1999.
Per il Progetto Genoma Umano:

AA.VV., Il Progetto Genoma, Le Scienze Quaderni, n. 100/D, Le Scienze, 1998.
I. Dunham et al., The DNA sequence of human chromosome 22. Nature, vol. 402: pp 489-495, 1999.
Per i vari aspetti della terapia genica:

C. Bordignon et al., Gene therapy in peripheral blood lymphocytes and bone marrow for ADA-immunodeficient patients. Science, vol. 270: pp 470-475, 1995.
C. Bonini et al., HSV-TK gene transfer into donor lymphocytes for control of allogeneic graft-versus-leukemia. Science, vol. 276: pp 1719-1724, 1997.
A.L. Manson et al., Complementation of null CF mice with a human CFTR YAC transgene. The EMBO Journal, vol. 16: pp 4238-4249, 1997.
P. Blezinger et al., Systemic inhibition of tumor growth and tumor metastasis by intramuscular administration of the endostatin gene. Nature Biotechnology, vol. 17: pp 343-348, 1999.
J.J. Harrington et al., Formation of de novo centromeres and construcion of first-generation human artificial chromosomes. Nature Genetics, vol. 15: pp 345-355, 1997.

March 04, 2003

Meno sorveglianza, troppa televisione, eccesso di premure alla sera: una ricerca del ministero della sanità Usa punta il dito sulle donne

"Bambini obesi per solitudine le mamme lavorano troppo"



"È facile dare la colpa al cibo spazzatura le vere cause sono nei mutamenti della società"

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SAN FRANCISCO - Nove milioni di bambini americani sono obesi e la nuova epidemia sociale invade l´Europa. Tutta colpa del fast food? No, hamburger e patatine sono uno «strumento» per ingrassare ma la causa primaria è un´altra: il massiccio ingresso delle donne sul mercato del lavoro, i figli abbandonati davanti alla tv senza un controllo materno sull´alimentazione. Lo dice un´autorevole ricerca condotta dal ministero della Sanità Usa. A sorpresa, le femministe accettano il verdetto e abbattono un tabù sui danni del lavoro femminile per i figli.
A sollevare il caso è proprio una femminista americana, Mary Eberstadt, ricercatrice alla Hoover Institution dell´università di Stanford, con un articolo esplosivo che esce sulla Policy Review con il titolo «The Child-Fat Problem». Secondo l´ultimo censimento del ministero della Sanità, pubblicato sul Journal of the American Medical Association, nella fascia di età fra i 6 e i 19 anni il 15% degli americani è affetto da obesità patologica. Questo esercito di bambini grassi si è triplicato in soli vent´anni: ormai il fenomeno tra i piccoli è ancora più grave che nella popolazione adulta, e progredisce senza freni. Perfino la velocità con cui si ingrassa è in aumento. La generazione di obesi nata dopo il 1964 ci ha messo il 25% di tempo in meno a diventare sovrappeso, rispetto ai nati nel 1957. Questa piaga non è solo americana. La Eberhardt elenca cifre analoghe per Inghilterra, Germania e Giappone, cita i dati del Bollettino epidemiologico nazionale italiano, ricorda l´allarme del ministero della Sanità in Francia dove i bambini obesi sono raddoppiati dal 1980 ad oggi. Le conseguenze sulla salute sono drammatiche: un boom di malattie respiratorie e cardiovascolari in età precoce, di tumori legati al grasso, senza dimenticare le incalcolabili sofferenze di natura psicologica patite dai bambini obesi.
La Eberstadt riassume la vasta letteratura scientifica su questa patologia di massa: le spiegazioni chiamano in causa l´alimentazione troppo ricca di carne, latticini e grassi animali; la vita sedentaria; perfino fattori ereditari. L´industria del fast food è nel mirino e si moltiplicano negli Stati Uniti le cause contro McDonald´s. Come i malati di cancro al polmone vinsero contro l´industria del tabacco, non è escluso che gli obesi comincino a riscuotere indennizzi dai produttori di hamburger. «Ma il fast food - scrive la Eberstadt - risponde a una domanda che esiste sul mercato, non la crea». Certo una dieta a base di cibo-spazzatura è una sicura ricetta per ingrassare, ma qual è la motivazione originaria che spinge verso questa alimentazione? «Il vero problema - dice la Eberstadt - non è il come si ingrassa, ma il perché». La risposta si trova ora in una nuova indagine scientifica condotta da tre medici americani (di cui due donne) e finanziata dal ministero della Sanità Usa. Gli autori sono Patricia Anderson, Kristin Butcher e Philipp Levine, le loro conclusioni sono in un rapporto dal titolo esplicito: «Maternal employment and overweight children» (madri che lavorano e bambini sovrappeso). Sulla base di una ricognizione su 10.000 bambini, la ricerca dimostra «prove evidenti che il lavoro della madre ha un impatto significativo sulla probabilità che il figlio sia sovrappeso». Dal 6 all´11% di aumento di obesità negli Stati Uniti è imputabile al solo fatto che le madri lavorino, e questo vale «anche per le madri bianche, di elevato ceto sociale e livello educativo». Una ricerca analoga ha prodotto gli stessi risultati in Giappone.
Perché una mamma che lavora ha più probabilità di avere un figlio obeso? «Storicamente - scrive la Eberstadt - l´alimentazione dell´infanzia è stata sottoposta a un controllo ravvicinato degli adulti, e principalmente delle madri. Questo è accaduto sotto ogni latitudine, cultura e ceto sociale. Oggi per la prima volta viviamo in un universo in cui gli adulti non sono più in casa per esercitare quel controllo». Ma perché guardare solo al ruolo della madre, e non del padre? «La partecipazione delle donne al mercato del lavoro è il grande cambiamento sociale degli ultimi decenni - scrive la Eberstadt - e piaccia o no la responsabilità di allevare i figli continua a gravare soprattutto su noi donne».
Gli effetti del lavoro femminile sulla dieta dell´infanzia sono molteplici. Fin dai primi mesi: le mamme non possono permettersi di allattare troppo a lungo i bambini al seno, e il latte artificiale è più grasso di quello materno. In seguito, i figli delle madri lavoratrici trascorrono in media ogni giorno 22 minuti in più incollati al televisore, rispetto ai bambini che hanno la mamma a casa. «E´ dimostrato - scrive la Eberstadt - che più tempo i bambini passano davanti al televisore, più mangiano in modo malsano e incontrollato, e quindi cresce la probabilità che diventino obesi».
L´assenza della madre è direttamente legata anche alla minore attività sportiva: la donna ha un ruolo essenziale nel promuovere la socializzazione dei figli in impegni extrascolastici. Infine c´è il fattore psicologico. Le mamme lavoratrici si sentono in colpa, e spesso reagiscono nel modo meno salutare: riempiendo il frigorifero perché ai figli «non manchi nulla». La Eberstadt conclude con una requisitoria che è un attacco frontale a molti luoghi comuni sull´emancipazione femminile: «Il problema dell´obesità infantile apre un nuovo dibattito nel movimento femminista. I vantaggi per le madri di poter accedere al lavoro sono stati esaltati; mentre i possibili costi del nostro successo economico sono rimasti virtualmente un tabù».
Certo è ingiusto non chiamare in causa anche i padri. «Come madre - scrive la Eberstadt - sono d´accordo. Ma la vita è ingiusta. Siamo noi donne che abbiamo sempre ricoperto il ruolo di controllori alimentari verso i bambini. L´eldorado materialista ci rende libere di lasciare la casa per un lavoro remunerato, ma c´è un lato oscuro che non possiamo ignorare. Ciò che i bambini dei paesi ricchi stanno facendo con le loro bocche e i loro stomaci, è riempire dei vuoti che si sono aperti nelle loro vite. Nelle calorie cercano una consolazione perché il mondo di casa e quello del lavoro sono troppo lontani».
Stipsi: ne soffre il 18% degli italiani



Un problema dalle mille sfaccettature su quale influisconoo molto fattori soggettivi e persino "ambientali". E' la stipsi, un disturbo che, solo nell'ultimo anno, ha interessato il 17-18% della popolazione in Italia, ma per il quale è spesso difficile stabilire un causa specifica tanti sono i fattori correlati che concorrono al suo manifestarsi: dall'alimentazione non corretta, a orari e ritmi stressanti fino a stati d'ansia, quando non vere e proprie forme depressive che, non di rado, l'accompagnano.

Intanto una ricerca svolta da Loren Consulting, presentata oggial circoloo della stampa di Milano, dimostra che quello che un tempoera vissuto come problema individuale, intimo, del quale era persinodifficile parlare, oggi è visto come un problema 'socialè,condiviso del quale si può non vergognarsi. Se ne è parlato anche oggi nel corso di un convegno organizzato a Milano dalla Boehringer Ingelheim Italia.

"La stipsi può essere un problema occasionale o cronico - ha spiegato il professor Giuseppe Gizzi, professore di gastroenterologia all'Universitá di Bologna- chi ne soffre dovrebbe adottare uno stiledi vita più regolare alimentandosi correttamente, evitando cibi troppo 'lavorati' e privilegiando invece cibi ricchi di fibre, quali verdura e frutta accompagnati dall'assunzione abbondante di liquidi".

"Anche una moderata ma continuativa attivitáfisica, a volte basta una sana passeggiata, - sottolinea Gizzi - può essere di grande aiuto. Inoltre lo stimolo dell'evacuazione va sempre assecondato quando si presenta, per evitare che col tempo si produca una abolizione dello stimolo stesso con la conseguente necessità di usare, cronicamente, stimoli farmacologici comesupposte o microclismi".

"I lassativi sono indicati solo in caso di stipsi occasionali- sottolinea anche Carmelo Scarpignato, professore di farmacologia all'Università di Parma-: quando la stipsi è cronicava valutata da specialisti in grado di dare diagnosi precise e terapie adeguate; l'auto medicazione è non solo poco efficace, può essere persino dannosa". "Anche i lassativi naturali, senza principichimici, avverte il professore - non sono sempre sinonimo disicurezza. Tant'è che la Fda, l'ente regolatore americano,notoriamente molto severo in tema di controlli, ha messo sottoosservazione tutti i lassativi di banco, compresi quelli naturali, e chiesto alle aziende produttrici di fornire una documentazione adeguata circa la loro innocuità".

"Alcune aziende, anche importanti - sottolinea ancora Scarpignato - hanno dovuto ritirare i loro prodotti naturali, a basedi Aloe, cascara sagrada eccetera, ed in più di un caso, hannodeciso di cambiare la composizione dei propri lassativi passando da principi attivi naturali ad altri principi chimici più tradizionali, come il bisacodile o il picosolfato, ritenuti, anche dalla Fda, più sicuri".


Oms e Fao certificano la dieta mediterranea come misura per combattere le malattie croniche



La dieta mediterranea è stata ufficialmente riconosciuta dalla Fao e dall'Oms come una delle misure per combattere le malattie croniche. "Una dieta povera di cibi ad alto apporto energetico, quali grassi saturi e zuccheri, ma ricca di frutta e verdure, e una vita attiva", è la raccomandazione di un rapporto di esperti indipendenti preparato dalle due Agenzie delle Nazioni Unite, che uscirà a fine aprile.

Il rapporto mira a proporre nuove raccomandazioni da rivolgere ai Governi in merito a dieta ed esercizi per fronteggiare la crescente mortalità dovuta a malattie croniche, quali quelle cardiovascolari, i tumori, il diabete e l'obesità. Nel 2001 le morti da tali malattie hanno rappresentato circa il 59% del totale di 56,5 milioni di morti nel mondo ed il 46% della cifra totale di malattie.

"Qesto rapporto è di grande importanza perché contiene le migliori prove scientifiche attualmente disponibili e valutate da un gruppo di esperti di estrazione mondiale sulla relazione intercorrente tra malattie croniche e dieta, nutrizione e attività fisica»" ha dichiarato Ricardo Uauy, capo dell'Istituto cileno di nutrizione e di tecnologia dell'alimentazione e docente di nutrizione e salute pubblica alla Facoltà di igiene e medicina tropicale dell'Università di Londra, che ha presieduto il gruppo.

Basato sull'analisi delle migliori prove disponibili e sul giudizio collettivo dei trenta esperti, il rapporto rileva che l'apporto energetico quotidiano dovrebbe equivalere all'energia spesa. E' provato che un consumoeccessivo di cibi altamente energetici può provocare aumento dipeso; occorre - secondo il rapporto - porre un limite ai consumi di grassi saturi, di zuccheri e di sale, che si trovano spesso nelle merendine, nei cibi trattati e nelle bibite. La qualitàdei grassi e degli oli ingeriti, nonchè la quantità di sale consumato, può pure influire sulle malattie cardiovascolari quali infarti e colpi apoplettici.

Intanto l'Oms sta preparando una Strategia mondiale sulla dieta, l'attività fisica e la salute, a seguito di una risoluzione adottata nel maggio 2002 dall'Assemblea mondiale della sanità che sarà pubblicato in primavera. Spetterà poi alle autorità nazionali e regionali quale punto di riferimento emanare direttive specifiche sulla dieta e sull'esercizio fisico per le rispettive comunità locali.

"Esso offre - ha dichiarato Uauy - obiettivi dietetici e di livelli d iattività fisica coerenti con le esigenze di una buona salute e della prevenzione delle principali malattie connesse con la nutrizione". Nei Paesi in via di sviluppo si soffre sempre più dimalattie croniche: questo è un cambiamento radicale rispetto apochi decenni or sono, quando le malattie croniche erano appannaggio del mondo ricco e industrializzato. L'inurbamento crescente di contadini che abbandonano la terra per raggiungerela città è una delle cause di questo fenomeno.

Le raccomandazioni specifiche contenute nel rapporto includono la limitazione dei grassi dal 15 al 30%dell'assunzione quotidiana di energia: di questi, i grassi saturi dovrebbero costituire non più del 10 per cento. I carboidrati dovrebbero costituire il grosso - dal 55 al 75% - delle energie da assumere quotidianamente e gli zuccheri non dovrebbero superare il 10 per cento. Le proteine dovrebbero fornire il 10-15 per cento delle calorie e il sale dovrebbe rimanere al di sotto dei 5 grammi al giorno. Frutta e verdure dovrebbero raggiungere almeno 400 grammi al giorno. La Finlandiae il Giappone, che sono intervenuti attivamente sui comportamenti dietetici delle rispettive popolazioni, hanno assistito a una sensibile diminuzione dei fattori di rischio e delle malattie croniche.

March 01, 2003

Sanzioni pecuniare più severe per chi truffa il servizio sanitario nazionale; una task force che affiancherà i Nas e la Guardia di Finanza per i controlli nelle regioni; multe raddoppiate per chi infrange i divieti sul fumo.



Questi i principali provvedimenti inseriti del decreto-legge antitruffa approvato oggi dal Consiglio dei ministri.


Il provvedimento concernente «Disposizioni urgenti per il perseguimento di illeciti nel settore sanitario», interviene nella normativa vigente per rendere più severe le sanzioni attualmente previste e per rafforzare il controllo sul territorio nei vari settori della sanità, a tutela della salute dei cittadini e del funzionamento del Servizio sanitario nazionale.



Il Decreto, informa il ministero della salute, introduce nell'ordinamento sanzioni amministrative pecuniarie minime di 50 mila euro, che possono arrivare fino a venti volte il prodotto, il profitto o il prezzo della violazione, per quei professionisti del Servizio sanitario nazionale, dipendenti e convenzionati, «che effettuano prescrizioni farmaceutiche o diagnostiche non pertinenti con la malattia del paziente ovvero richiedono in violazione di legge o di regolamento rimborsi inappropriati, determinano ingiustificati ricoveri ospedalieri o assumono impegni contrattuali e obbligazioni, cagionando un danno alle Asl e agli ospedali».


Le somme incassate con le multe saranno utilizzate per la riduzione delle liste di attesa principalmente nella Regione dove è avvenuto l'illecito.


A conclusione del procedimento, sarà effettuata comunicazione ai competenti ordini e collegi professionali affinchè valutino l'ipotesi di sospensione dellþesercizio della professione o la radiazione dall'albo del professionista.



Il Decreto legge inasprisce anche le sanzioni amministrative pecuniarie sugli abusi della pubblicità in materia sanitaria e, in particolare, di quella relativa agli informatori scientifici, prevedendo multe da un minimo di 5 mila a un massimo di 30 mila euro.


Per quanto riguarda il Codice penale, spiega il ministero della salute, è inserita una specifica circostanza aggravante nell'articolo 640 per le truffe commesse dagli operatori del settore in danno del Servizio sanitario nazionale: è notevolmente aumentata la pena pecuniaria ed è resa obbligatoria la confisca dei beni connessi con il reato.


Il provvedimento che definisce il giudizio sarà comunicato al competente ordine o collegio professionale che, valutati gli atti, dispone la radiazione dalla professione del responsabile.


Sul piano dei controlli, il Decreto legge costituisce una task force di specialisti facenti capo al Ministero della Salute che affiancherà i carabinieri dei Nas nell'attività di controllo dell' applicazione dei Livelli essenziali di assistenza e la Guardia di Finanza nell'accertamento di reati a danno del Servizio sanitario nazionale, inclusa la corretta rappresentazione dei Drg (Diagnosis Related Groups) alle Regioni.


Infine sono raddoppiate le multe per chi infrange i divieti di fumare, l'importo minimo passa da 25 euro a 50 euro, il massimo da 250 a 500. I responsabili del rispetto divieto rischieranno invece da 300 a 3000 euro, contro le multe attuali che vanno da 200 a 2000.

LA FABBRICA DEGLI ANTICORPI

Un gruppo di ricercatori dell'Università Vita-Salute San Raffaele, in collaborazione con l'Università di Utrecht, ha ricostruito il meccanismo con cui i linfociti si organizzano per fabbricare in gran numero gli anticorpi.
a cura di: Laura Arghittu (I.S.U.S.R.)
Un gruppo di ricercatori dell'Università Vita-Salute San Raffaele, in collaborazione con l'Università di Utrecht, ha ricostruito la catena di eventi che porta alla genesi della "fabbrica" cellulare degli anticorpi e ne ha individuato i meccanismi genetici.
Mediante sofisticate tecniche (analisi proteomiche) i ricercatori hanno identificato alcune componenti essenziali della catena di montaggio che i linfociti attivano per prepararsi alla produzione degli anticorpi. Quando l'organismo ne ha bisogno il linfocita infatti si organizza e giorno dopo giorno allestisce tutto il necessario per agire e, dopo aver prodotto gli anticorpi necessari a combattere gli agenti patogeni, smantella la fabbrica.

Gli anticorpi sono una delle armi di cui il nostro sistema immunitario dispone per difenderci dalle infezioni. Queste molecole sono in grado di riconoscere ed inattivare con straordinaria precisione gli agenti patogeni (virus, batteri etc.).
Se, ad esempio, ci ammaliamo di influenza, gli anticorpi prodotti attaccheranno il virus influenzale, ma non ci difenderanno dal morbillo o dalla rosolia.
Ancor più importante è che gli anticorpi non riconoscano componenti del nostro stesso organismo. Quando ciò accade, si generano gravissime malattie, chiamate autoimmuni.
Oltre che inutile, quindi, può essere molto pericoloso produrre anticorpi prima di venire a contatto con un agente patogeno.

"Nel nostro organismo circolano centinaia di miliardi di linfociti, ognuno in grado di riconoscere uno specifico agente patogeno" - commenta Roberto Sitia, docente di Biologia molecolare dell'Università Vita-Salute San Raffaele e coautore dello studio - "I linfociti sono piccole cellule, essenzialmente inattive fino al momento in cui incontrano il proprio bersaglio, una cellula malata o un aggressore esterno. Riconosciuto il pericolo, i linfociti vanno incontro ad una vera e propria metamorfosi, scatenandosi nella produzione di anticorpi: da attente sentinelle si trasformano in autentiche macchine da guerra, in grado di dispiegare al secondo migliaia "truppe di soldati", gli anticorpi, con il compito di attaccare e annientare il nemico."

"Questo cambiamento di mansioni si accompagna ad un completo mutamento della forma dei linfociti" - continua Sitia - "caratterizzato dallo sviluppo delle strutture essenziali alla fabbricazione, al confezionamento e infine al rilascio degli anticorpi.
La comprensione dei processi cellulari necessari per la produzione di anticorpi è una tappa cruciale per poter sintetizzare in vitro queste straordinarie molecole, fondamentali per la difesa dell'organismo dagli attacchi di qualsiasi malattia."

Lo studio è stato finanziato da Telethon, dall'Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, dal Ministero della Ricerca - Centro di eccellenza in Fisiopatologia della differenziazione cellulare e dall'Unione Europea.


Studio pubblicato su Immunity, febbraio 2003

Eelco van Anken (1), Edwin P. Romijn,(2), Claudia Maggioni (1), Alexandre Mezghrani (3), Roberto Sitia (3), Ineke Braakman (1) e Albert J.R. Heck (2)

1) Department of Bio-organic Chemistry-1, Bijvoet Center Utrecht University
2) Department of Biomolecular Mass Spectrometry Bijvoet Center and
Utrecht Institute for Pharmaceutical Sciences Utrecht University
3) Università Vita-Salute San Raffaele e Dipartimento di Biotecnologie - Istituto Scientifico San Raffaele, Milano

Per consultare lo studio, vai al sito di ,Immunity (in inglese)


Seicentomila a letto in 7 giorni
L'influenza raggiunge il picco

ROMA — Sono seicentomila gli italiani che la settimana scorsa hanno preso l'influenza. Secondo i dati dell'Istituto superiore di sanità, l'ondata epidemica è al picco: colpisce di preferenza bambini e adolescenti (26,14 per mille abitanti) e risparmia gli over 65, che hanno preso da tempo la buoba abitudine di vaccinarsi. Dice Isabella Donatelli, ricercatrice dello stesso Istituto: «Alcuni dei virus influenzali circolanti possano variare, ma la loro diffusione è graduale, il che può comportare una riduzione ma non un annullamento dell'efficacia della vaccinazione».
Da Napoli giunge invece notizia di una morte ancora tutta da chiarire, forse imputabile a choc anafilattico. Salvatore Gravina, 24 anni, operaio di Melito è stato trovato agonizzante nel sonno. Da qualche giorno soffriva di quella che sembrava una banale influenza. La curava da sé: stando a riposo e cercando aiuto nelle compresse di Tachipirina e di VivinC. L'autopsia dovrà ora accertare l'esatta causa del decesso: le confezioni di medicinali, nel frattempo, sono state messe sotto sequestro per essere sottoposte a test di laboratorio.
La tragedia è avvenuta nella notte tra martedì e mercoledì. Il ragazzo, che viveva nella casa paterna con i quattro fratelli maschi e i genitori, era a letto con le coperte tirate fin sulla testa, come d'abitudine. Da lunedì era in malattia, piegato dai sintomi del virus. Poco dopo l'una di notte, il sonno dei fratelli è stato interrotto dai lamenti di Salvatore, già agonizzante. Svegliati i genitori, la corsa in auto verso l'ospedale di Giugliano. «L'ultimo respiro lo ha dato in macchina», dice il fratello. I medici hanno tentato invano di strappare Salvatore alla morte. «Non è stato possibile effettuare la diagnosi del decesso», si legge nel referto. L'autopsia, annunciata per oggi al primo Policlinico di Napoli, dovrà stabilire di cosa sia morto il ragazzo. E se si possa stabilire una relazione tra il decesso e l'assunzione delle medicine. «Potrebbe trattarsi — ipotizza Aldo Rubino, direttore dell'Asl Napoli 2 — di ipersensibilità individuale verso uno dei farmaci assunti».


Agente cancerogeno in snack e patatine


Alta densità di acrilammide in molti alimenti in commercio. La denuncia del Salvagente. Imputati i Bahlsen e le chips di McDonald's.


ROMA - Un probabile agente cancerogeno per in molti alimenti e snack normalmente in commercio. Questa la denuncia del settimanale Il Salvagente , che, nel numero in edicola questa settimana, presenta i risultati della prima analisi italiana sull'acrilammide. Un lavoro realizzato per conto della rivista dei consumatori dal Laboratorio della Camera di commercio di Torino. A finire sotto i microscopi 17 confezioni industriali, tra patatine, chips, fette biscottate e corn flakes. Per tutte è stato calcolato il contenuto in acrilammide, sostanza classificata in classe 2A (tra i potenziali cancerogeni per l'uomo) da parte della Iarc, l'agenzia internazionale per la ricerca sul cancro. Una molecola per la quale la legge italiana impone un severo limite nelle acque potabili: 0,1 microgrammi al litro.

I risultati del test bocciano patatine e chips, che superano di migliaia di volte il tetto precisto per l'acqua nel nostro paese. Una confezione "media" (attorno ai 90 grammi) di patate fritte di MacDonald's, per esempio, contiene circa 50 microgrammi di acrilammide, 500 volte più che un litro d'acqua. Un "tubo" da 100 grammi di patatine Bahlsen, invece, arriva a 160 microgrammi, quanto quelli che la legge permetterebbe di assumere, al massimo, bevendo 1600 litri di acqua. Il test, però, fornisce anche notizie confortanti per gli amanti di fette biscottate e corn flakes, che escono pienamente assolte dall'accusa di ospitare acrilammide.

L'acrilammide fino a qualche mese fa non avrebbe detto nulla al grande pubblico. A cambiare le carte in tavola, ci ha pensato la Swedish national food authority, l'istituto pubblico di controllo sugli alimenti, nell'aprile 2002, che ha denunciato la presenza del pericoloso composto in numerosi cibi, cotti ad alte temperature. Un allarme che ha messo in subbuglio prima gli esperti poi i consumatori, dato che riguardava alimenti difusissimi sulle tavole di tutto il mondo. Le patatine fritte, per esempio, tanto quelle in busta che quelle servite dai fast food, ma anche i biscotti, il pane tostato, i cereali e il caffè. Alimenti normalmente associati a diete squilibrate, come i fritti, già oppressi da più di un'accusa, dunque, ma piatti che nessun consumatore guardava fino a quel momento con sospetto.

La Iarc, l'agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, in realtà, lo aveva classificato nel 1994, nel gruppo 2A, insieme ad altre sostanze ad alto rischio. E da imporre un severo limite nelle acque potabili, l'unica fonte alimentare considerata a rischio fino allo studio svedese: 0,5 microgrammi al litro (secondo le raccomandazioni dell'Organizzazione mondiale della sanità) e 0,1 microgrammi per litro, secondo la legge italiana. Dopo gli studi realizzati da Olanda, Norvegia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti, pare accertato che l’acrilammide si formi durante la cottura di alimenti ricchi di zuccheri e di asparagina (un amminoacido caratteristico delle proteine), quando è presente nel cibo un basso contenuto di acqua.

A finire sotto accusa, insomma, secondo il Salvagente, rimangono patatine e chips. Quelle in busta, ad esempio, mostrano un contenuto di acrilammide circa 3mila volte superiore a quello permesso per l'acqua potabile. A rispondere dovranno essere gli scienziati, spiega il Salvagente, la considerazione che segue è però "preoccupante": un pacchettino piccolo di patatine da 45 grammi, che un bambino consuma interamente, contiene in media 13,5 microgrammi di acrilammide, 135 volte oltre il massimo permesso per un litro d'acqua. Una confezione "media" (attorno ai 90 grammi) di patate fritte di MacDonald's, invece, ne contiene circa 50 microgrammi, 500 volte più che un litro d'acqua. Per un tubetto da 100 grammi di chips Bahlsen, arriviamo a 160 microgrammi, quanto quelli che la legge permetterebbe di assumere, al massimo, bevendo 1600 litri di acqua. Davvero troppo, a meno di non dimostrare che non aveva alcun senso l'allarme e le conseguenti restrizioni adottate per le acque.


NUOVO STRUMENTO DIAGNOSTICO CREATO DA GALILEO AVIONICA
L´apparecchio consente di rivelare in modo precoce e non invasivo stati infiammatori, lesioni muscolari e formazioni tumorali


Si chiama «TRIMprob» e arriva dalla più sofisticata tecnologia militare, ma servirà a difendere solo la salute. E´ un nuovo strumento diagnostico portatile e non invasivo che consentirà di evidenziare in tempo reale e in maniera precoce diverse patologie, dagli stati infiammatori alle formazioni tumorali. A realizzarlo è stata la Galileo Avionica, società di Finmeccanica che opera nel campo della difesa e produce sistemi avionici ed elettro-ottici, equipaggiamenti spaziali per piattaforme e satelliti. Il «TRIMprob» (Tissue Resonance Interfero-Meter Probe) è uno strumento di semplicissimo utilizzo, che consente di esaminare le diverse aree del corpo umano in pochi minuti, senza la necessità di rimuovere gli indumenti e senza provocare il minimo disagio per il paziente. L´apparecchiatura è composta di una sottile sonda cilindrica lunga circa trenta centimetri alimentata a batterie e di un ricevitore. Un software elaborato da Galileo Avionica acquisisce e legge i dati diagnostici. Lo strumento emette un debole segnale elettromagnetico, che si autosintonizza su frequenze caratteristiche delle strutture esaminate. Il segnale è in grado di scovare negli organi e nei tessuti diverse patologie e tumori. Quando il campo elettromagnetico incontra un aggregato in stato biologico alterato, infatti, si innesca un fenomeno di interferenza con la struttura in analisi. Il fenomeno consente di identificare neoplasie, fibromi, calcificazioni, stati infiammatori, problemi circolatori, lesioni osteo-articolari, muscolari e tendinee. Interamente sviluppata in italia, l´apparecchiatura è basata su tecnologia HSM (Hybrid State Maser). Una tecnologia ideata dal fisico Clarbruno Vedruccio che offre notevoli prospettive di sfruttamento sia per applicazioni militari sia per la sicurezza nazionale, in quanto può essere utilizzata nella individuazione di materiali e ordigni esplosivi, oltre che per esaminare lo stato di salute di tessuti e organi umani. Le prime esperienze sono state infatti condotte sulla ricerca di disomogeneità nel terreno, per localizzare ordigli esplosivi interrati. Per valutare la capacità diagnostica dello strumento sono state condotte diverse sperimentazioni in particolare su prostata, mammelle e stomaco-duodeno, che hanno fornito risultati decisamente promettenti. Così la commercializzazione dei primi esemplari di «TRIMprob», specifici per la prostata, è prevista per la prossima esate. Nuovi esperimenti sono in corso su fegato e polmone, mentre a breve saranno attivati studi per cuore, tiroide, utero e pancreas.
Un "malato virtuale" per studiare il dolore



L'Interactive Patient funziona un pò come un videogame e mette alla prova il medico con domande precise. In caso di errore, si torna indietro di un livello. «Ma la vera novitá - sottolinea Marchettini - è la presenza sul pc dei malati virtuali che, simulando una visita vera, raccontano al medico la loro storia e descrivono i sintomi. Così insegnano ai giocatori a fare le domande giuste per arrivare a comprendere il problema». Vediamo, ad esempio, una donna di mezza etá con un lavoro sedentario e da poco sottopostasi ad un intervento chirurgico, spiegare i suoi mali a un dottore altrettanto virtuale.

«Ascoltare il paziente è il modo migliore per riconoscere un dolore neuropatico», assicura Marchettini. Non a caso il programma, messo a punto in collaborazione con la Pfizer, è destinato per il momento agli ortopedici. «Con l'obiettivo di spingere gli addetti alla salute delle ossa a risparmiare i nervi nei loro interventi. Ma anche a riconoscere i possibili problemi dei pazienti e a trattarli in modo adeguato». Questo tipo di dolore, dovuto alla lesione dei nervi, si può infatti curare nel 70% dei casi. «Le cause più frequenti possono essere malattie come il diabete o il fuoco di Sant'Antonio, ma anche interventi chirurgici - precisa l'esperto - quando le cicatrici 'strozzanò il nervo che non riceve più un flusso adeguato». Anzi, un 1/3 dei dolori neuropatici sono causati proprio dalla medicina. «Oltre alle oprazioni, anche la chemio e la radio possono scatenare questo tipo di sofferenza».

February 27, 2003

Vogliamo un mondo basato sulla giustizia e sulla solidarietà.


Ripudiamo la violenza, il terrorismo e la guerra come strumenti per
risolvere le contese tra gli uomini, i popoli e gli stati.


Chiediamo che l'Italia, di fronte alla minaccia di un attacco militare
contro l'Iraq, non partecipi ad alcun atto di guerra, nel rispetto
della Costituzione.


Non vogliamo essere corresponsabili di nuovi lutti, né vogliamo
alimentare la spirale del terrore.


Basta guerre, basta morti, basta vittime.






http://www.emergency.it/appelli/pace.shtml

GUERRA: Portali d'informazione


http://www.informationguerrilla.org/iraq_verso_la_3_guerra_del_golfo.htm
http://www.whatreallyhappened.org (inglese)
http://www.indymedia.it






PACE.



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Manteniamo giovane il cervello


Si pensava da tempo che nel cervello delle persone adulte le cellule fossero incapaci di formare nuovi legami o sinapsi.
I ricercatori del Cold Spring Harbor Laboratory (NY) sono giunti a conclusioni opposte che possono influire sull’evoluzione della neuroscienza e sul trattamento dei danni cerebrali.
I neuroni ricevono sollecitazioni da altri neuroni tramite i loro dendriti. Su questi si sono osservate sottili protrusioni chiamate “spines” che si allungano e retraggono in intervalli di dieci minuti durante lo sviluppo della corteccia cerebrale.
Precedenti osservazioni avevano rilevato che questi cambiamenti non avvengono nel cervello adulto.
Questa nuova ricerca ha utilizzato in modelli animali una proteina fluorescente che e’ associata ai dendriti e che ha invece evidenziato al microscopio elettronico l’apparire e scomparire delle “spines” che hanno una funzione simile alle sinapsi.
L’influenza dell’ambiente esterno determina la velocita’ del processo.Questa scoperta indica come i processi cognitivi possano continuare a modellare e reintegrare la comunicazione anche nelle cellule cerebrali di persone adulte.
Drug Discovery Today Vol.8,Febbraio 2003

February 24, 2003

Verdure contro l'Alzheimer
Due diversi studi si soffermano sull'associazione fra diverse diete e il rischio di sviluppare la malattia


Una dieta ricca di grassi non saturi e non idrogenati, come prodotti vegetali e alcuni oli, può essere di grande aiuto per abbassare il rischio di contrarre il morbo di Alzheimer. Le vitamine antiossidanti, invece, non hanno un effetto altrettanto protettivo. Lo affermano due diversi studi americani pubblicati sul numero di febbraio della rivista "Archives of Neurology".
Nel primo studio, medici del Rush-Presbyterian-St. Luke's Medical Center di Chicago hanno esaminato 815 pazienti oltre i 65 anni che, all'inizio della ricerca, durata quattro anni, non presentavano sintomi di Alzheimer, il disturbo che porta alla perdita della memoria e all'incapacità fisica. I soggetti erano tenuti a riferire con precisione le proprie abitudini alimentari. Al termine dello studio, i ricercatori hanno scoperto che 131 persone avevano sviluppato la malattia.
Coloro che consumavano abitualmente i grassi più saturi, quelli che provengono da carne, pollame e prodotti caseari, avevano 2,3 volte più probabilità di sviluppare l'Alzheimer rispetto agli altri. Le ragioni, tuttavia, restano poco chiare e lo studio non spiega i motivi per cui differenti tipi di grassi sono associati a valori diversi di rischio.
Nel secondo studio, ricercatori della Columbia University di New York hanno concluso che le diete che contengono carotene e vitamine C ed E non sono associate con un rischio di Alzheimer ridotto. La questione era sorta perché sembra che gli antiossidanti - vitamine e altri nutrienti presenti nel cibo - riducano il danno cellulare causato dai radicali liberi, piccole particelle del metabolismo che possono danneggiare i neuroni e forse condurre all'Alzheimer.
La ricerca, che ha coinvolto 980 pazienti, non ha mostrato correlazione fra il consumo di carotene e di vitamine A ed E e lo sviluppo o meno della malattia.


© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A


Primo trapianto di faccia, su una quattordicenne

Con i tessuti di un cadavere. Lo psicologo: necessario un test per evitare lo choc

LONDRA

Guardarsi allo specchio e vedere la faccia di un morto incollata sulle ossa del proprio viso finora era materia da thriller cinematografico. Ma adesso una ragazzina irlandese di 14 anni, sfigurata da un incendio quando era bambina, si è offerta volontaria per il primo trapianto facciale del mondo. Il professor Peter Butler, chirurgo plastico al Royal Free Hospital di Londra, ha messo a punto una tecnica che permette di prelevare le sembianze di un cadavere a quattro ore dal decesso e sottoporrà la paziente a una serie di test psicologici nelle prossime settimane. Altre tre candidate sono già in lista d'attesa, tutte deturpate da terribili ustioni: un'americana, una ragazza inglese di vent'anni e una donna turca. La prima cosa che si tratterà di stabilire è se la quattordicenne irlandese, che aveva dato fuoco a un´automobile giocando con i fiammiferi all´età di due anni, sarà in grado di superare il trauma che potrebbe venirle da un nuovo senso della propria identità. In ogni caso, il paziente non assumerà le sembianze esatte del donatore, perché ogni individuo ha una struttura ossea diversa. Il professor Butler, che è in competizione con un'equipe di medici americani nella corsa al primo trapianto facciale del mondo, ha sempre detto che ci vuole un dibattito pubblico che affronti quella che lui considera una radicata resistenza al concetto di una persona vivente «che cammina con la faccia di un morto addosso». L'operazione dovrà essere approvata da un comitato etico presieduto da Simon Weston, veterano della guerra delle Falkland che ha subito ustioni al 46% del corpo. La tecnologia, spiega Butler al «Sunday Times», c'è già, ed è un´appendice «diretta e naturale delle procedure per il trapianto di organi: il rischio di fallimento si aggira intorno al 4 o al 6 per cento, forse persino meno. Gli ostacoli maggiori sono l'opinione pubblica e i finanziamenti». L'operazione durerebbe 10 ore e costerebbe 50 mila sterline (75 mila euro). A novembre il chirurgo britannico, fra il plauso della comunità medica, aveva annunciato che il primo trapianto facciale sarebbe stato possibile entro sei mesi. La tecnica - spiega il professor Butler - è complessa ma per un verso è tale e quale qualunque altro trapianto di organo, perché la si può realizzare con l'immunosoppressione moderna. Ma è diversa in quanto si tratta di un trapianto visibile, che coinvolge la nostra espressione: è una questione emotiva e funzionale». La procedura di microchirurgia, che era già stata impiegata nel trapianto di pelle da una mano all'altra, prevede la rimozione di muscoli facciali, pelle e grasso sottocutaneo del paziente, che verrebbero sostituiti da quelli di una persona appena morta. I vasi sanguigni e i nervi del donatore verrebbero connessi a quelli del paziente con migliaia di punti microscopici. Con un simile metodo, denominato «busta di pelle», il paziente assumerebbe il colore e la consistenza della pelle, la stessa tonalità delle sopracciglia e le palpebre del donatore. Una portavoce del ministero della Sanità aveva detto che prima di procedere sarà necessario il parere del National Institute For Clinical Excellence. La British Medical Association si è detta a favore di una consultazione che esamini questi punti: «Il primo riguarda la famiglia del donatore: come si sentiranno a sapere che qualcuno prenderà le sembianze del loro caro? Come si sentirà il paziente che riceve il volto? Le nostre apparenze sono parte della nostra identità». Lo psicologo Aric Sigman, che ha condotto una ricerca sul rapporto tra viso e concetto di sé, ha predetto che i trapianti facciali diventeranno una realtà in quanto curativi, ma chi tentasse di abusare della tecnologia medica per ragioni estetiche si farebbe solo del male: «E' un territorio inesplorato. Un trapianto facciale implica un profondo cambiamento di identità». Finora la tecnica sembrava relegata alla finzione di un film come «Face/Off», in cui John Travolta e Nicholas Cage si scambiano la faccia con l'uso della tecnologia laser.
Inattività fisica: rischio grave per la salute


L'OMS lancia un ammonimento: la sedentarietà è la causa principale delle malattie non contagiose. Necessaria più attività fisica. I risparmi sarebbero immensi anche per il bilancio degli Stati.
di Umberto Melotti*

SAINT MORITZ - Bougez pour votre santé! Muovetevi per la salute! È l'ammonimento, lanciato con un motto tradotto in 63 lingue, dalla conferenza internazionale su "Sport e sviluppo", tenuta questa settimana in Svizzera, a Magglingen, in occasione del campionato del mondo degli sport invernali di S. Moritz. L'incontro, promosso dall'OMS (l'Organizzazione Mondiale della Sanità), in collaborazione con varie istituzioni svizzere, ha riunito per tre dense giornate esponenti delle Nazioni Unite e della Croce Rossa, primi ministri e ministri della salute, dell'ambiente e dello sport di moltissimi Paesi, medici e studiosi di igiene, sociologia e antropologia culturale. Il risultato è stato un documento (la Dichiarazione di Magglingen, appunto) che impegna le istituzioni, le organizzazioni e le associazioni dei Paesi partecipanti a operare in favore di un deciso cambiamento di stile di vita degli abitanti non solo del Nord del mondo, ma anche dei Paesi in via di sviluppo, ove avanza una preoccupante sedentarietà.

Secondo l'OMS l'inattività fisica, che si sta espandendo rapidamente nel mondo, è, con la cattiva dieta e il tabacco, una delle principali cause dei decessi dovuti a malattie non contagiose, che rappresentano ormai il 60% di tutti i decessi e arriveranno a rappresentarne, secondo la tendenza in corso, il 73% nel 2020. Gli stessi fattori sono causa del 43% di tutti i disturbi della salute e arriveranno a causarne il 60%. Tale incremento è in gran parte dovuto all'estendersi ai Paesi più poveri di malattie ancora ritenute proprie dei Paesi più sviluppati. L'inattività causa tra il 10% e il 16% dei tumori maligni al seno, al colon e al retto, altrettanti casi di diabete mellito e circa il 22% delle ischemie cardiache.

La combinazione di insufficiente attività fisica, dieta impropria e fumo causa l'80% delle affezioni coronariche precoci. In tutto il mondo il 60% degli adulti non svolgono sufficiente attività fisica e ciò causa in molti casi obesità e sovrappeso.L'obesità che deriva da insufficiente attività causa 300.000 morti all'anno solo negli Stati Uniti e si sta diffondendo sempre più in America Latina, Medio Oriente e Asia. In Cina ci si attende che circa 200 milioni di persone diventino obese entro i prossimi dieci anni. Secondo la conferenza, per migliorare fortemente la situazione basterebbero 30 minuti al giorno di moderata attività fisica (ciò già basterebbe a ridurre del 60% i casi di diabete mellito e a contenere fortemente le affezioni cardiocircolatorie). Ulteriori benefici deriverebbero da dieci minuti di attività fisica ogni ora (basta anche solo salire a piedi le scale o una breve camminata) e da un'attività fisica più intensa 3 volte la settimana, per 20 minuti per i ragazzi e 30 minuti per gli adulti. Per controllare la tendenza all'obesità occorrono invece 60 minuti di attività fisica moderata ogni giorno. I risparmi sarebbero immensi anche per il bilancio degli Stati.

*Università di Roma “La Sapienza”